2.4.12

I profittatori del clima. Acciaio e cemento (di Marina Forti)

Sul “manifesto” del 21 giugno 2011, nella rubrica “Terra terra” una notizia forse vecchia nei contenuti, ma emblematica di come sovente dalle lotte contro l’inquinamento delle organizzazioni internazionali gli inquinatori riescano paradossalmente a ricavare profitti. In questo caso approfittando della crisi. I particolari sono sotto spiegati ottimamente da Marina Forti. La sostanza è che le acciaierie e i cementifici europei che chiudevano o riducevano la produzione sia per la crisi che per delocalizzazioni verso altri continenti hanno ottenuto cospicui premi per il mancato inquinamento. Evviva!
Nell’elenco dei profittatori del clima c’è anche – nelle primissime posizioni – la ThyssenKrupp. Ho il sospetto che sull’intenzione ormai dichiarata di trasferire in Asia una parte consistente della produzione di acciai di Terni, con la motivazione che i profitti altrove sono maggiori giochino un ruolo anche le politiche internazionali sul clima. (S.L.L.)
Il meccanismo dei «permessi di emissione» vi sembra un po' astruso, non capite bene cosa significa «commercio del carbonio»? Un gruppo di grandi imprese europee invece l'ha capito benissimo: e ci sta guadagnando centinaia di milioni di euro. Lo rivela l'indagine di un gruppo britannico dedicato al monitoraggio del carbon trading: ieri ha pubblicato una lista di 10 grandi aziende europee dei settori del cemento e dell'acciaio che nel periodo 2008-2010 si sono aggiudicate permessi di emissione per un totale 240 milioni di tonnellate di anidride carbonica, con un valore di mercato che si aggira sui 4 miliardi di euro - quattro volte più del'intero budget ambientale dell'Unione europea per gli stessi due anni - che potrebbero arrivare a 5,6 miliardi alla fine del 2012.
Il sistema dei «permessi di emissione» è uno dei «meccanismi di flessibilità» previsti dal Protocolo di Kyoto sul clima, il trattato internazionale che obbliga i paesi industrializzati a tagliare le loro emissioni di «gas di serra» del 5,2% in media rispetto all'anno 1990 entro il 2012 (è una media, il Protocollo indica obiettivi differenziati per paesi o gruppi di paesi). Secondo questo trattato, i paesi - e aziende - che non riescono a rispettare l'obiettivo possono compensare comprando dei «crediti» dalle aziende che invece sono state così brave da ridurre più di quanto era loro richiesto. Il concetto è semplice, anche se i calcoli sono complicati: ogni paese non deve superare una certa quantità di emissioni di gas di serra, cioè ha il «permesso» di sparare nell'atmosfera quella certa quantità di anidride carbonica eccetera. Questa quota di emissioni ammesse è suddivisa per i vari settori di attività - energia, industrie, trasporti e così via. Prima che il protocollo di Kyoto entrasse in vigore, ogni paese dell'Unione europea ha calcolato le quote (tonnellate di anidride carbonica) assegnate a ciascun settore e a ogni singola azienda. E sono queste quote di «inquinamento autorizzato» che le aziende possono scambiare tra loro, attraverso una sorta di «borsa» chiamata European Trading Scheme (Ets). L'idea era che le aziende hanno interesse a vendere quote di emissione, non certo a spendere soldi per comprarle, e quindi «il mercato» stesso le spingerà a investire in innovazione tecnologica per tagliare le proprie emissioni.
I dati raccolti dall'organizzazione britannica Sandbag smentiscono questa idea, già molto contestata («Carbon Fat Cats 2001»: www.carbonfatcats.eu). Risulta che alcune grandi aziende dell'acciaio e del cemento (due tra le attività industriali più energivore e inquinanti, in termini di emissioni di gas di serra) hanno accumulato un ricco portafogli di «permessi di emissione» gratuiti: in parte perché i governi avevano sopravvalutato i loro bisogni, in parte anche perché la crisi economica ha contratto settori come acciaio, cemento (e chimica, ceramica e carta), lasciandogli in mano molti più «permessi» del necessario. La parte del leone in quella lista è di ArcelorMittal, con un surplus di crediti per 97,2 milioni di tonnellate di anidride carbonica, pari a 1,6 miliardi di euro. Seguono Lafarge (29,4 milioni di tonnellate, 501 milioni di euro), poi Tata Steel, ThyssenKrupp - al nono posto l'italiana Italcementi, 8,9 milioni di tonnellate di anidride carbonica, 151 milioni di euro. La cosa interessante è che si tratta dei settori che più fanno resistenza alla politica europea sul clima: Tata Steel, quando il mese scorso ha annunciato licenziamenti nei suoi stabilimenti nel regno unito, ha citato la crisi e le regolamentazioni europee sulle emissioni. «Per rimanere competitiva sul libero mercato globale dell'acciaio», le aziende europee hanno bisogno «una legislazione che non ne mini la competitività. Ma è proprio ciò che fa la politica europea del clima», diceva un mese fa Eurofer, la lobby europea dei produttori di acciaio. Così Cembureau, la lobby europea dei cementieri: «Sarebbe irresponsabile scaricare» sulle aziende il peso del taglio delle emissioni. Eppure su quella politica europea ora guadagnano milioni.

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