5.4.12

"Una sinistra superflua". Claudio Fava sul governo Capodicasa (1998-2000)

Angelo Capodicasa
Sfogliando un libro recente di Giuseppe Arnone che stamani mi hanno regalato (Chi ha tradito Pio La Torre?), ho ritrovato una lunga citazione dal volume di Claudio Fava, I disarmati, un giudizio articolato sull’esperienza siciliana del governo Capodicasa, degli ultimi anni del secolo scorso (1998-200), un governo guidato da un post-comunista che faceva il paio con quello romano di D’Alema ed aveva in Giunta ben tre esponenti politici successivamente condannati per rapporti esterni o organici con la mafia. Non conosco approfonditamente le vicende siciliane di quegli anni e tuttavia il ragionare di Fava, in tempi di “lombardismo”, mi pare degno di essere diffuso ed, eventualmente, commentato da chi ne sa di più. Quanto a me, non appena potrò, comprerò il libro di Fava, anche perché m'è piaciuta la franchezza con cui parla dei propri stessi errori e delle proprie debolezze. (S.L.L.)

Claudio Fava
In quell'esperienza, nel modo in cui si fabbricò la Giunta regionale, nelle infinite mediazioni al ribasso si coglievano tutti i segni di una sinistra ormai superflua, incapace di segnare una vera discontinuità, disposta persino ad archiviare la lotta alla mafia pur d'essere ammessa al governo. A celebrare quel baratto c'era già Totò Cuffaro, assessore all'agricoltura nella precedente giunta di centrodestra, ancora assessore e sempre all'agricoltura con la nuova maggioranza di centrosinistra, espressione di un potere inamovibile, tolemaico, assoluto. C'era Bartolo Pellegrino, socialista demartiano, poi craxiano, con Lamberto Dini quando i socialisti affondano, con sé stesso quando affonda anche Dini; appoggia la giunta Capodicasa, poi la butta giù offrendo i suoi voti a Forza Italia, si fa intercettare dai carabinieri mentre spiega ad un amico suo mafioso come fare a guardarsi dagli "sbirri e dagli infami" infine lo arrestano per associazione mafiosa: stava con la cosca Messina Denaro. C'era Vincenzo Lo Giudice, meglio noto come "Mangialasagne", socialdemocratico, poi con Clemente Mastella, poi all'Udc, sempre primo tra gli eletti, sempre assessore per cinque governi di fila e di ogni colore. Quando lo arrestano nel marzo del 2004, scoprono che s'era conservato 500 milioni di vecchie lire sotto una mattonella della camera da letto. Lo condannano a quasi 17 anni di carcere.
Lo Giudice, spiega la sentenza, non è un amico dei mafiosi: è un mafioso nel senso tecnico del termine, uno che stava al governo della regione (centrodestra, centrosinistra, poi centrodestra) solo per accompagnare gli appalti nelle mani e nelle tasche delle cosche del paese suo. Lui, Lo Giudice, non faceva nemmeno finta: anzi, il ruolo da padreterno di provincia gli piaceva, con quel misto di vanità e di minchioneria che finisce sempre per farti perdere il senso delle cose.
A Canicattì, il suo paese, ricordano ancora la sua prima campagna elettorale, nel 1991, accompagnata dalle note del Padrino. Almeno aveva il senso dell'umorismo. C'era bisogno d'aspettare che li arrestassero Lo Giudice e Pellegrino? C'era bisogno che Totò Cuffaro si prendesse una condanna a 5 anni di reclusione per aver favorito alcuni amici suoi mafiosi? Era proprio necessario caricarseli tutti dentro quel primo ed unico governo di sinistra nella storia della Sicilia?
No, non ce n'era bisogno. L'inadeguatezza morale di un uomo politico non la ricavi soltanto dal codice penale: sta scritta nella sua storia, nelle cose che dice, nel modo in cui le dice, nella disinvoltura con cui cerca voti, nei gesti, nelle amicizie, nei baci, nei silenzi. Ciascuno di noi è un racconto: pagine scritte dalla vita, non dai giudici. Occorre solo aver voglia di leggerli, questi racconti.
A sinistra di voglia ce n'è stata poca. E si è finito per imbarcare chiunque potesse portare un voto in più. Pur sapendo che in Sicilia la vera posta in palio non è andare al governo: la vera sfida nel riaffermare l'autonomia della politica dai poteri forti, della pervasività mafiosa . A prescindere. Conservo memoria precisa di quei nomi, di quei fatti perché me li trovai squadernati davanti appena arrivai in Sicilia, segretario del partito, cinque mesi dopo che la giunta di centrosinistra si era insediata con quel suo corredo pittoresco di improbabili alleati e di assessori di pietra.
Conservo la responsabilità di avere accettato quell'incarico, pur rendendomi conto che il governo Capodicasa era prigioniero di un reticolo di veti, di miserie, di ricatti. E che sarebbero fatalmente mancati i gesti forti e necessari che la Sicilia s'aspettava dal suo primo governo di sinistra. Ma dietro quel fallimento non ci fu solo la voracità politica di qualche assessore. C'era innanzi tutto la convinzione che occorresse più tolleranza, più spregiudicatezza: magari evitando l'analisi del sangue ai propri alleati di governo.
Quella spregiudicatezza si portava dietro un vecchio equivoco su ciò che avrebbe dovuto essere un partito di sinistra, se un luogo di principi o piuttosto uno strumento del fare (fare alleanze, tessere rapporti, procurare gratitudine, spingere appalti). Un dilemma concreto. Perduti i vecchi blocchi sociali di riferimento, smarrita ogni affinità con la borghesia intellettuale e con i pochi luoghi del sapere, esaurita senza lasciare traccia la breve primavera dei sindaci: da che parte ricominciare per restituire un segno e un senso alla sinistra siciliana? Potevano esserci molte risposte. La più immediata chiamava in causa, come ai tempi di Pio La Torre, l'egemonia di Cosa Nostra e dunque l'urgenza di rinnovare l'impegno antimafia, rimasto ormai privo di rappresentanza politica. In quell'impegno c'era posto anche per il ragionamento di un nuovo modello di sviluppo, su un mercato affrancato dal cappio della spesa pubblica improduttiva, sulla ricerca di un consenso senza obbedienze. Una politica di pensieri lunghi, per dirla con Berlinguer. Prevalsero, invece pensieri brevissimi ed un partito a essi adeguato. Con alcuni interpreti di eccezione.

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