Le terre del Sacramento è uno dei pochi capolavori del neorealismo letterario italiano, un libro capace insieme di restituire una temperie e di offrire una prospettiva originale. Una sua ristampa per Donzelli è l’occasione di riletture critiche, tra cui questa di Graziella Pulce su “alias” del 22 gennaio scorso, che dà valore agli elementi mitici e simbolici del romanzo. (S.L.L.)
Pubblicato nel 1950 – proprio l’anno della riforma agraria – subito dopo la morte di Francesco Jovine, Le terre del Sacramento (introd. di Francesco D’Episcopo, Donzelli, pp. XIV-257, € 23,00) avevano conosciuto una lunga gestazione. Nel ’46 l’autore dichiarava alla «Fiera letteraria»: «Da dieci anni mi porto in mente un romanzo di vastissime proporzioni, senza titolo, per ora, ma con una decina di personaggi che mi fanno già ottima compagnia».
Il romanzo rappresenta uno dei più cospicui contributi al realismo e il vertice dell’opera dell’autore molisano, che volle rappresentare la condizione del Meridione d’Italia nel suo groviglio di vitalismo e abiezione, fede e disincanto. L’opera è articolata secondo una scansione lenta e vede alternarsi una serie di figure che inizialmente paiono contendersi il ruolo protagonista: Enrico Cannavale, proprietario delle terre del Sacramento, tremila ettari espropriati alla Chiesa nel 1867 e ritenuti maledetti dalla superstizione popolare; Clelia, cugina di Enrico e sua amante occasionale; Laura, la moglie che si adopera perché il Fondo sia nuovamente coltivato e poi distribuito tra i contadini; e infine Luca Marano, ex seminarista e poi avvocato, che coadiuva Laura nell’impresa di strappare quelle terre al destino di abbandono e di salvare i Cannavale dalla rovina.
Le rivolte contadine, gli assalti squadristi ai danni dei lavoratori in lotta e la marcia su Roma costituiscono la trenodia che accompagna il racconto, in cui s’infiltrano elementi di schietto paganesimo.
Questo per dire che nulla di ciò che accade nel romanzo ha un valore puramente individuale, né nelle sue origini lontane, né nelle motivazioni più o meno prossime, né negli effetti che ne scaturiscono. Tanto il mondo cittadino che quello agricolo-pastorale, i due poli di un cosmo verghianamente corale, sono librati in una condizione di sospensione panica. E dunque ciò che accade e ancor di più ciò che non accade appartengono paradossalmente al medesimo universo governato da inerte stupore.
In questa opera potentemente realistica e insieme sanguignamente fantastica Jovine ha dato vita a una storia che non si lascia circoscrivere nei confini del romanzo di intonazione sociale, dove il giovane Luca conquistata lentamente e faticosamente coscienza dell’ingiustizia sociale. Rinunciando a ogni consolazione e a ogni semplificazione, Jovine ha creato un mondo complesso dove le varie voci coabitano senza istituire una gerarchia, quella gerarchia tanto celebrata dal fascismo e della quale in queste pagine si evidenziano le radici storiche e i meccanismi psicologici. Che Luca Marano sia destinato alla morte lo si intuisce sin dal principio e non solo per ragioni di natura socio-politica, ma per ragioni squisitamente letterarie di dispositio. Egli ha osato sfidare le camicie nere e i privilegi della proprietà fondiaria, ma prima si era sottratto alla volontà della madre
che lo voleva prete. Ed è in quella scena iniziale apparentemente irrelata, nella quale la terribile donna scopre il seno e pronuncia la propria maledizione, che tutto si incardina verso la tragedia.
È la Grande Madre mediterranea, amorosa e distruttrice, il luogo centrale della vicenda e della storia di questo paese, come in qualche modo aveva già intuito Grazia Deledda che con La madre aveva delineato un conflitto di identica tragicità. Le terre del Sacramento non sarebbe quel complicato e attualissimo romanzo che è se la voce del narratore avesse voluto imporre un proprio superiore ed esterno ordine a questo grumo di storia mediterranea e molisana, nel quale il denaro e i manganelli sono in mani maschili, ma la forza resta nelle mani della donna.
“alias domenica” 22 gennaio 2012
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