29.4.12

L'andatura felina del filosofo. Un ritratto di Schopenhauer (di Giulio Cattaneo)

Un ritaglio da “la Repubblica” dei primi anni ottanta mi restituisce un articolo di Giulio Cattaneo, scritto a commento di una riedizione dei Colloqui, un antico libretto di testimonianze su Arthur Schopenhauer. Riprendo un giocoso ritrattino del filosofo, sorpreso nella sua eccentrica quotidianità. Una lettura davvero piacevole. (S.L.L.)
Arthur Schopenhauer e il suo cane in un disegno d'epoca
La vita di Arthur Schopenhauer nei ricordi di vari personaggi, a partire dal 1811, quando il filosofo aveva ventitré anni, fino ai giorni della sua morte e dei funerali, ad settembre del 1860: questa è la materia dei Colloqui pubblicati da Rizzoli nel «Ramo d'oro», a cura di Anacleto Verrecchia. Poche pagine su Schopenhauer giovane nei suoi incontri con Wieland e con Goethe, per ritrovarlo trentenne al tempo del Mondo come volontà e rappresentazione; e, dopo qualche rapida apparizione al Caffè Greco di Roma, a Napoli e a Berlino, tra il '18 e il '33, i Colloqui documentano fedelmente la sua vita ordinata e metodica a Francoforte.
Un'esistenza ormai senza avvenimenti di spicco, né viaggi né amori, e rivolta soprattutto al passato rimestando vecchie passioni e rancori, fra gli omaggi crescenti di filosofi delle nuove generazioni, soprattutto in seguito alla pubblicazione dei Parerga e Paralipomena, dopo più di un trentennio di silenzio e delusioni...
Figlio di un facoltoso commerciante di Danzica e di una donna brillante, salottiera e autrice di romanzi alla moda, Schopenhauer si distingue, anche per la tradizione familiare di mercanti anseatici, dai filosofi suoi contemporanei: i quali per la maggior parte discendevano da pastori protestanti e da funzionari statali, nella costellazione dei grandi tedeschi maturati nella parrocchia evangelica. Schopenhauer parlò sempre con gratitudine del padre, al quale doveva, fra l'altro, la sua indipendenza economica; mentre con la madre ebbe soprattutto fieri contrasti, non risparmiandole sarcasmi del resto ricambiati da lei con prontezza di spirito, in un inasprirsi di rapporti che arriverà alla rottura e all'abbandono di Weimar per Dresda.
I Colloqui sono un insieme di testimonianze eterogenee in un susseguirsi di personaggi diversi: filosofi come Frauenstadt, giuristi, medici, filologi, musicisti, insegnanti, ora sconosciuti, ora noti come il drammaturgo Hebbel. Documenti brevissimi o di una certa consistenza, che non hanno certo l'organicità degli scritti sulla vita e il carattere di Kant nel racconto di tre contemporanei, Borowski, Jachmann e Wasianski; ma il ritratto di Schopenhauer si impone con grande vivezza e coerenza, disegnato da più mani in momenti diversi della sua vita.
Così appare il filosofo trentenne nel ricordo dell'impresario teatrale Biedenfeld: «di schiettissima lealtà, franco, aspro e rude, straordinariamente deciso e sicuro in tutte le questioni scientifiche e letterarie, pronto a chiamare ogni cosa con il suo giusto nome di fronte all'amico come all'avversario, molto incline al frizzo, spesso di una rusticità veramente umoristica, mentre la testa bionda con gli sfavillanti occhi grigio-azzurri, la lunga piega della guancia ai lati del naso, la voce un po' stridula e i rapidi, violenti gesti delle mani acquistava non raramente un'aria addirittura terribile».
Quarant’anni dopo così lo vedeva lo scrittore Ludwig Ferdinand Neuburger: «Nel riferire i suoi discorsi, naturalmente, molto va perso, perché la sua vivacità veramente sbalorditiva nel gesticolare e nel parlare conferiva alle sue parole qualche cosa di particolare. I suoi occhi erano straordinariamente vivaci; la sua fronte era alta e arcuata; intorno alla sua bocca serpeggiavano due pieghe amare; i suoi capelli bianchi erano ritti. Come la sua stanza anche lui era sommamente caratteristico: la sua andatura era furtiva, felina».
Dello stesso periodo è il ricordo del conte Faucher de Careil, diplomatico e storico della filosofia: «Quando lo vidi per la prima volta, nel 1859, alla tavola dell'Hotel d'Inghilterra a Francoforte, era già un vecchio, dall'occhio di un azzurro vivo e limpido, dal labbro sottile e leggermente sarcastico, intorno al quale errava un fine sorriso. La sua vasta fronte, segnata da due ciuffi di capelli bianchi ai lati, conferiva un'aria di nobiltà e di distinzione alla sua fisionomia sfavillante di spirito e di malizia. [...] I suoi movimenti erano vivaci e diventavano di una irrequietezza straordinaria nella conversazione».
I colloqui si svolgevano in una grande stanza coi ritratti di Goethe, Shakespeare e Cartesio, il busto di Kant, la statuirla del Buddha e calcografìe di animali, o nella biblioteca dai tremila volumi o alla "table d'hote" dell'Hotel d'Inghilterra. «Quando conversava, la verve del vecchio ricamava sul canovaccio un po' pesante del tedesco i suoi brillanti arabeschi latini, greci, francesi, inglesi e italiani».
Da giovane «faceva il guastafeste», irritando coi suoi sarcasmi i frequentatori dei circoli letterari e della società corale, e incombendo a dispetto sui giocatori al tavolo del whist provocando errori a catena.
Schopenhauer parlava un po' di tutto: di avvenimenti letterari, di argomenti scientifici, di teatro, di musica e particolarmente di filosofia, esaltando la triade di Buddha, Platone e Kant oltre a se stesso e bistrattando anche, negli ultimi anni, i "tre ciarlatani": Hegel, Fichte e Schelling! Sbeffeggiava i francesi, "nazione di tigri-scimmie", e la loro lingua, con espressioni simili a quelle usate da Alfieri, del quale aveva letto la Vita scritta da esso. Ammirava l'Inghilterra criticandone però il bigottismo e derideva i tedeschi, "la più stupida di tutte le nazioni", provocando malumore e disagio in chi lo ascoltava, anche se straniero.
In musica rimaneva fedele a Mozart e a Rossini. Ernst Otto Lindner, che lo conobbe nel '52, racconta che sul suo leggìo «c'erano cose piuttosto vecchie: un concerto di Pleyel, Di tanti palpiti di Rossini, la marcia del Tito»… Schopenhauer non amava i romantici e diceva che Wagner avrebbe dovuto darsi alla poesia e "appendere la musica al chiodo".
Detestava i democratici e le loro barbe, segno di "barbarie", e fu avverso alla rivoluzione democratico-liberale del '48 prestando, fra l'altro, il suo binocolo da teatro a un ufficiale austriaco perché dirigesse meglio il tiro sulla "canaglia sovrana" degli insorti. A distanza di anni, parlando con un filosofo francese, disse che la Rivoluzione dell'89 era stata ricca di "slanci sublimi" e per questo era "abortita", mentre la rivoluzione tedesca del '48, "abbastanza stupida e borghese", aveva fatto solo ridere.
Al di là dell'ammirazione dei suoi seguaci, il ritratto in bianco e nero di Schopenhauer gesticolante e collerico assume tratti comici nei diverbi con la governante, col calzolaio e il falegname, nelle scenette in cui affronta in veste da camera col bastone il cane del macellaio a difesa del suo diletto e inseparabile cane barbone e batte in ritirata di fronte alle minacce del corpulento beccaio col grembiule sporco di sangue. O quando saltabecca alla ricerca della dentiera in presenza di un allibito visitatore.
Un personaggio adatto per apparire, nella sua eccentricità, insieme a Filippo Ottonieri nelle Operette morali di Leopardi: quel Leopardi che lo stesso Schopenhauer sentiva singolarmente vicino al suo pessimismo.

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