I fratelli Wittgenstein, da sinistra in
alto: Hermine, Helene, Margarethe; davanti Paul e Ludwig
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«Dio è arrivato, l’ho
incontrato sul treno delle cinque e un quarto». Così John Maynard
Keynes, economista già allora molto noto, dopo un casuale incontro
con Ludwig Wittgenstein il giorno del suo rientro in Inghilterra. La
divinità austriaca tornava alla filosofia dopo gli anni trascorsi
come maestro elementare in montagna e come architetto a Vienna. Una
vita tormentata, un genio solo, che agli esaminatori del dottorato
diede una pacca sulla spalla e disse «Non fatene un dramma, so che
non lo capirete mai», con riferimento alla sua tesi, che era poi il Tractatus logico-philosophicus. Si rivolgeva a Bertand Russell
e George E. Moore, non proprio due pivelli.
Siamo nel 1929, al
termine di un decennio che sconvolse il mondo non solo occidentale.
Wolfram Eilenberger (Il tempo degli stregoni. 1919-1929. Le vite
straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del
pensiero, Feltrinelli, 2018) ne insegue quattro protagonisti,
tratteggiandone la vita e il pensiero, gli incontri e le divergenze.
Il libro scorre vivace mentre alterna in maniera ordinata pagine
sulle vite di quattro filosofi di lingua tedesca. Wittgenstein,
dunque, mistico e forse malato di una qualche forma di autismo,
intelligenza altissima e difficile da gestire, padrone della
matematica e della logica. L’esperienza della prima guerra mondiale
(fu anche prigioniero a Cassino per mesi) lo segna profondamente, la
lettura di Tolstoj lo porta al cattolicesimo. Ricchissimo, lascia ai
fratelli tutti i suoi beni. Faticosamente omosessuale, accudito dalle
sorelle, evita sempre per pochissimo il suicidio. Il Circolo di
Vienna lo considera fondatore e nume tutelare, ma quando interviene
agli incontri parla dando le spalle a tutti, in disaccordo con tutti.
Cambridge lo invita, lo implora, con quell’esame di dottorato
riesce a tenerlo con sé.
Sarebbe tanto piaciuto al
berlinese Walter Benjamin essere desiderato da un ateneo. Anche al
coetaneo Martin Heidegger, il figlio del sagrestano cattolico che
trentenne decide di «vedere le cose con un nuovo sguardo» e
abbandona le idee di Dio, di matrimonio, di vita con cui era
cresciuto. Ma se il primo fallirà ogni tentativo di carriera
accademica, il secondo invece la costruirà meticolosamente, cercando
appoggi, selezionando amicizie, sicuro di essere superiore a tutti e,
decisamente, parecchio antipatico.
Il quarto filosofo è
Ernst Cassirer, nato a Breslavia (oggi in Polonia) e morto a New
York, dove era fuggito per scampare le persecuzioni naziste. Unisce e
divide i quattro proprio il tema della religione e dell’antisemitismo
che non dovrà certo attendere Hitler per impregnare la cultura
tedesca. Benjamin e Cassirer sono di famiglia ebraica, lasceranno la
Germania, ma Benjamin, coerentemente con una vita di viaggi come
fughe, amori, spese insensate, mancato riconoscimento, imbrogli,
indecisioni, illusioni, quando il visto per gli Stati Uniti tarda ad
arrivare, si uccide nella città di mare spagnola da dove avrebbe
dovuto salpare.
Dall’altra parte
Heidegger, di cui non diremo i discorsi da rettore e gli appunti dei
quaderni, perché per fortuna ci fermiamo prima, ma che è noto per
un’idea di cultura tedesca pura e davvero “sopra tutti”. Infine
il convertito Wittgenstein, di cui si è detto, e della sua fatica a
stare con se stesso.
Gli amori, poi, dei
quattro, così simili al loro pensiero: tranquilla vita matrimoniale
per Cassirer, l’accademico convinto di poter arrivare a comprendere
e spiegare tutto intendendo l’uomo e il suo mondo come un insieme
di simboli da interpretare e utilizzare (ebbe la cattedra ad Amburgo
e lì lavorò molto con un altro genio folle, Aby Warburg). Heidegger
visse amore ed erotismo come momenti di filosofia, dato che la vita
del filosofo è anche il suo pensiero, entrambi compresi
nell’immanenza dell’«esserci». Di Benjamin e della caotica vita
si è detto: inseguendo l’attrice organica al partito comunista
Asja Lacis, soggiornò a Capri e andò a Mosca in pieno inverno,
senza legarsi al Partito per essere più libero di fare quel che gli
pareva. Non si sa nulla di certo di eventuali compagni di
Wittgenstein, anche se è sicuro il suo disprezzo per quella cosa
sporca che sarebbe la sessualità. Come poteva essere altrimenti, per
colui che ha tentato di leggere il linguaggio come la matematica,
come la logica, dove ogni segno non dà adito a indecisioni o
interpretazioni? Il linguaggio di Dio, questo sembra cercare.
Con modalità diverse,
anche gli altri però: i simboli di Cassirer e quindi la sua
filosofia della cultura; la domanda di Heidegger su ciò che c’è
qui e ora, sulla finitezza e dentro la finitezza, non sono forse
tentativi verso una lingua originaria, una conoscenza che sappia
davvero che cosa c’è e lo sappia dire? Benjamin non è dato per
disperso, è solo un po’ perso, altri dopo la sua morte mostreranno
come genialmente per primo ha saputo leggere e spiegare i tempi
nuovi. Ma lui non lo sapeva.
“Il Sole 24 ore
Domenica”, 1° luglio 2018
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