9.8.18

1919-1929. Tempestose vite di filosofi (Maria Bettetini)



I fratelli Wittgenstein, da sinistra in alto: Hermine, Helene, Margarethe; davanti Paul e Ludwig
«Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto». Così John Maynard Keynes, economista già allora molto noto, dopo un casuale incontro con Ludwig Wittgenstein il giorno del suo rientro in Inghilterra. La divinità austriaca tornava alla filosofia dopo gli anni trascorsi come maestro elementare in montagna e come architetto a Vienna. Una vita tormentata, un genio solo, che agli esaminatori del dottorato diede una pacca sulla spalla e disse «Non fatene un dramma, so che non lo capirete mai», con riferimento alla sua tesi, che era poi il Tractatus logico-philosophicus. Si rivolgeva a Bertand Russell e George E. Moore, non proprio due pivelli.
Siamo nel 1929, al termine di un decennio che sconvolse il mondo non solo occidentale. Wolfram Eilenberger (Il tempo degli stregoni. 1919-1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli, 2018) ne insegue quattro protagonisti, tratteggiandone la vita e il pensiero, gli incontri e le divergenze. Il libro scorre vivace mentre alterna in maniera ordinata pagine sulle vite di quattro filosofi di lingua tedesca. Wittgenstein, dunque, mistico e forse malato di una qualche forma di autismo, intelligenza altissima e difficile da gestire, padrone della matematica e della logica. L’esperienza della prima guerra mondiale (fu anche prigioniero a Cassino per mesi) lo segna profondamente, la lettura di Tolstoj lo porta al cattolicesimo. Ricchissimo, lascia ai fratelli tutti i suoi beni. Faticosamente omosessuale, accudito dalle sorelle, evita sempre per pochissimo il suicidio. Il Circolo di Vienna lo considera fondatore e nume tutelare, ma quando interviene agli incontri parla dando le spalle a tutti, in disaccordo con tutti. Cambridge lo invita, lo implora, con quell’esame di dottorato riesce a tenerlo con sé.
Sarebbe tanto piaciuto al berlinese Walter Benjamin essere desiderato da un ateneo. Anche al coetaneo Martin Heidegger, il figlio del sagrestano cattolico che trentenne decide di «vedere le cose con un nuovo sguardo» e abbandona le idee di Dio, di matrimonio, di vita con cui era cresciuto. Ma se il primo fallirà ogni tentativo di carriera accademica, il secondo invece la costruirà meticolosamente, cercando appoggi, selezionando amicizie, sicuro di essere superiore a tutti e, decisamente, parecchio antipatico.
Il quarto filosofo è Ernst Cassirer, nato a Breslavia (oggi in Polonia) e morto a New York, dove era fuggito per scampare le persecuzioni naziste. Unisce e divide i quattro proprio il tema della religione e dell’antisemitismo che non dovrà certo attendere Hitler per impregnare la cultura tedesca. Benjamin e Cassirer sono di famiglia ebraica, lasceranno la Germania, ma Benjamin, coerentemente con una vita di viaggi come fughe, amori, spese insensate, mancato riconoscimento, imbrogli, indecisioni, illusioni, quando il visto per gli Stati Uniti tarda ad arrivare, si uccide nella città di mare spagnola da dove avrebbe dovuto salpare.
Dall’altra parte Heidegger, di cui non diremo i discorsi da rettore e gli appunti dei quaderni, perché per fortuna ci fermiamo prima, ma che è noto per un’idea di cultura tedesca pura e davvero “sopra tutti”. Infine il convertito Wittgenstein, di cui si è detto, e della sua fatica a stare con se stesso.
Gli amori, poi, dei quattro, così simili al loro pensiero: tranquilla vita matrimoniale per Cassirer, l’accademico convinto di poter arrivare a comprendere e spiegare tutto intendendo l’uomo e il suo mondo come un insieme di simboli da interpretare e utilizzare (ebbe la cattedra ad Amburgo e lì lavorò molto con un altro genio folle, Aby Warburg). Heidegger visse amore ed erotismo come momenti di filosofia, dato che la vita del filosofo è anche il suo pensiero, entrambi compresi nell’immanenza dell’«esserci». Di Benjamin e della caotica vita si è detto: inseguendo l’attrice organica al partito comunista Asja Lacis, soggiornò a Capri e andò a Mosca in pieno inverno, senza legarsi al Partito per essere più libero di fare quel che gli pareva. Non si sa nulla di certo di eventuali compagni di Wittgenstein, anche se è sicuro il suo disprezzo per quella cosa sporca che sarebbe la sessualità. Come poteva essere altrimenti, per colui che ha tentato di leggere il linguaggio come la matematica, come la logica, dove ogni segno non dà adito a indecisioni o interpretazioni? Il linguaggio di Dio, questo sembra cercare.
Con modalità diverse, anche gli altri però: i simboli di Cassirer e quindi la sua filosofia della cultura; la domanda di Heidegger su ciò che c’è qui e ora, sulla finitezza e dentro la finitezza, non sono forse tentativi verso una lingua originaria, una conoscenza che sappia davvero che cosa c’è e lo sappia dire? Benjamin non è dato per disperso, è solo un po’ perso, altri dopo la sua morte mostreranno come genialmente per primo ha saputo leggere e spiegare i tempi nuovi. Ma lui non lo sapeva.

“Il Sole 24 ore Domenica”, 1° luglio 2018

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