Sembrano passati secoli,
eppure sono passati solo cinquant’anni dal 1967, quando è stata
pubblicata l’enciclica Populorum progressio, scritta da
Paolo VI. Tempestosi e ricchi di speranze quegli anni sessanta del
Novecento; si erano da poco conclusi i lavori del Concilio Vaticano
II che aveva aperto al mondo le porte della chiesa cattolica; era
ancora vivo il ricordo della crisi dei missili a Cuba, quando il
confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica con le loro bombe
termonucleari, aveva fatto sentire il mondo sull’orlo di una
catastrofe; i paesi coloniali stavano lentamente e faticosamente
procedendo sulla via dell’indipendenza, sempre sotto l’ombra
delle multinazionali straniere attente a non mollare i loro privilegi
di sfruttamento delle preziose materie prime; la miseria della
crescente popolazione dei paesi del terzo mondo chiedeva giustizia
davanti alla sfacciata opulenza consumistica dei paesi capitalistici
del primo mondo; nel primo mondo studenti e operai chiedevano leggi
per un ambiente migliore, per salari più equi, per il divieto degli
esperimenti nucleari.
In questa atmosfera il
malinconico Paolo VI aveva alzata la voce parlando di nuove strade
per lo sviluppo. “Progressio”, ben diverso dalla crescita delle
merci e del denaro, la divinità delle economie capitalistiche.
L’enciclica sullo
sviluppo dei popoli diceva bene che "il fine ultimo e
fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni
prodotti né nella sola ricerca del profitto e del predominio
economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi
più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in
rapporto all'uomo che esse devono servire".
La Populorum
progressio metteva in discussione lo stesso diritto umano al
"possesso" dei campi, dei minerali, dell'acqua, degli
alberi, degli animali, che non sono di una singola persona o di un
singolo paese, ma "di Dio", beni comuni come ripete papa
Francesco nella sua enciclica Laudato si’” e
continuamente.
L’enciclica Populorum
progressio indica diritti e doveri dei popoli della Terra divisi
nelle due grandi “classi” dei ricchi e dei poveri, ben
riconoscibili anche oggi: i ricchi, talvolta sfacciatamente ricchi,
dei paesi industriali ma anche quelli che, nei paesi poveri,
accumulano grandi ricchezze alle spese dei loro concittadini; i
poveri che affollano i paesi arretrati, ma anche quelli, spesso
invisibili, che affollano le strade delle dei paesi opulenti,
all’ombra degli svettanti grattacieli e delle botteghe sfavillanti.
La Populorum
progressio fu letta poco volentieri quando fu pubblicata e da
allora è stata quasi dimenticata benché le sue analisi dei grandi
problemi mondiali siano rimaste attualissime.
I popoli a cui
l’enciclica si rivolge sono, allora come oggi, quelli che lottano
per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie
endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più
larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle
loro qualità umane; che si muovono con decisione “verso la meta di
un pieno rigoglio”.
L’enciclica denuncia il
malaugurato (dice proprio così) sistema che considera il profitto
come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come
legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di
produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi
sociali corrispondenti. E condanna l’abuso di un liberalismo che si
manifesta come "imperialismo internazionale del denaro".
In quegli anni sessanta
era vivace il dibattito sulla “esplosione” della popolazione, in
rapida crescita specialmente nei paesi poveri, e la domanda di un
controllo della popolazione, resa possibile dall’invenzione “della
pillola”, aveva posto i cattolici di fronte a contraddizioni. Paolo
VI ricorda che spetta ai genitori di decidere, con piena cognizione
di causa, sul numero dei loro figli, prendendo le loro
“responsabilità davanti a Dio, davanti a se stessi, davanti ai
figli che già hanno messo al mondo, e davanti alla comunità alla
quale appartengono”. Il tema della “paternità responsabile”
sarebbe stato ripreso nel 1968 dallo stesso Paolo VI nella
controversa enciclica Humanae vitae e, più recentemente, da
papa Francesco che ha detto che per essere buoni cattolici non è
necessario essere come conigli.
Il progresso dei popoli è
ostacolato anche dallo “scandalo intollerabile di ogni estenuante
corsa agli armamenti”, una corsa che si è aggravata in tutto il
mezzo secolo successivo con la diffusione di costosissime e sempre
più devastanti armi nucleari, oggi nelle mani di ben nove paesi,
oltre che di armi convenzionali.
In mezzo secolo è
cambiata la geografia politica; un mondo capitalistico egoista e
invecchiato deve fare i conti con vivaci e affollati paesi emergenti,
pieni di contraddizioni, e con una folla di poverissimi.
I poveri di cui
l’enciclica auspicava il progresso, nel frattempo cresciuti di
numero, sono quelli che oggi si affacciano alle porte dell’Europa
per sfuggire a miseria, guerre fratricide, oppressione imperialista,
per sfuggire alla sete e alle alluvioni, alla fame e all’ignoranza,
quelli che i paesi cristiani non esitano a rispedire in campi di
concentramento africani pur di non incrinare il loro benessere,
magari dopo avere strizzato la vita e salute degli immigrati nei
nostri campi. I pontefici dicano pure quello che vogliono; le cose
serie sono i propri interessi e commerci.
Eppure è fra i poveri
disperati e arrabbiati che trova facile ascolto l’invito alla
violenza e al terrorismo; noi crediamo che la sicurezza dei nostri
negozi e affari si difenda con altre truppe super-armate, con sistemi
elettronici che si rivelano fragili e violabili, e invece l’unica
ricetta, anche se scomoda, per rendere la terra meno violenta e più
“adatta da abitare”, sarebbe la giustizia.
“il manifesto”,
domenica 26 marzo 2017
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