8.8.18

La piaga del lavoro precario non guarirà col decreto Dignità. Ecco perché (Roberta Carlini)


I rapporti a termine continuano a crescere.
E con la legge presentata dal ministro 5 Stelle
la situazione cambierà ben poco

Un fiume. Un flusso d’acqua impetuoso, che corre preme e si incanala in tanti rivoli. E quando ne trova uno bloccato, in un attimo va a riempirne un altro. L’immagine è bella e bucolica. Ma la sostanza non lo è, se con la metafora del fiume ci si riferisce al lavoro che le imprese cercano e vogliono dare: flessibile e temporaneo, breve e imprevedibile come il futuro. Alla piaga del lavoro precario, contro la quale la parte pentastellata del governo ha stampato nero su bianco sul frontespizio di un decreto la parola “dignità”, e ha dettato le nuove regole, più rigide, del contratto di lavoro dipendente a tempo determinato. Ma chiuso uno sbocco, la corrente prevalente del fiume rischia di andarsene in altri, altrettanto precari, com’è successo nel passato recente, e spesso: almeno sei volte in cinque anni, riepiloga Bruno Anastasia, dell’osservatorio di Veneto Lavoro e grande esperto di numeri dell’occupazione. È lui che ricorre all’immagine del fiume in piena per raccontare cosa sta succedendo al lavoro nell’Italia del dopo-crisi. Se guardiamo al fiume, e non ai suoi rivoli - che si chiamano a termine, a chiamata, interinali, voucher, intermittenti, e via via tutte le forme che il diritto del lavoro ha dato alla grande onda - possiamo allontanarci dai duelli di giornata sui numeri del decreto e della sua relazione, per rispondere a una domanda di fondo: il lavoro breve è la nuova normalità della produzione di merci e servizi? E nella corsa del fiume, vince la legge o l’economia?

Novantacinque su cento
Nello stesso giorno in cui il Consiglio dei ministri approvava il decreto dignità, l’Istat diffondeva la sua nota mensile sull’occupazione. I dati si riferivano a maggio e dunque consentono di fare un confronto sul flusso di lavoro dal maggio 2017 a quello di quest’anno. Su 457.000 occupati in più, solo 5.000 sono permanenti (aggettivo con il quale l’Istat ha sostituito la dizione “a tempo indeterminato”, dopo il Jobs Act), poi ci sono 19.000 autonomi e infine ben 434.000 a termine. In percentuale: 95 nuovi occupati su 100 hanno un lavoro temporaneo. Qui c’è «un cambiamento che potremmo definire epocale», scrive Francesco Seghezzi sul bollettino di Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi, chiamando in causa le mutazioni «dei sistemi produttivi, sempre più esposti a mercati volatili e a consumatori esigenti, il tutto rendendo necessari livelli di flessibilità diversi da quelli del passato». Insomma, «è difficile pensare che siamo di fronte solo a un cortocircuito normativo».
Più che cortocircuiti, le norme negli ultimi tempi hanno fatto una bella serie di capriole e stop and go. Le riepiloga Anastasia: la riforma Biagi nel 2003 limita le collaborazioni e apre sui voucher e il lavoro intermittente (a chiamata); quest’ultimo viene poi penalizzato dalla legge Fornero, che invece fa esplodere i voucher e stringe i bulloni del tempo determinato; arriva subito dopo Letta che li allenta un po’, fino al ciclone Poletti (e siamo al 2014) che semplifica e liberalizza il tempo determinato; si arriva così al Jobs Act (2015) che invece incentiva il tempo permanente e chiude di fatto le collaborazioni, e fa correre i voucher; infine Gentiloni che chiude il rubinetto dei voucher, mentre risalgono intermittente e lavori a termine. E adesso Di Maio, che restringe i contratti a termine: ma non è finita ancora, poiché il ritorno parlamentare dei voucher potrebbe far incanalare di nuovo tutto il precariato nei buoni-lavoro.
Un’altalena da far girare la testa, e che rende abbastanza vano l’esercizio sulle previsioni post-decreto dignità.
«Le imprese si muovono veloci sfruttando le opportunità presenti, la corrente si sposta all’istante, sapere quale sarà il letto nuovo del fiume è complicato», riassume Anastasia. Loro stessi, nell’ufficio studi di Veneto Lavoro, hanno fatto dei calcoli per la regione che guida le classifiche della produzione e dell’occupazione italiane: 80 mila i rapporti di lavoro a termine (in Veneto) potenzialmente interessati dalla riforma Di Maio, e dunque dalla riduzione della durata massima da 36 a 24 mesi, dall’obbligo di dichiarare la causale dopo i 12 mesi, dalla riduzione del numero delle proroghe e dall’aumento del costo contributivo a ogni rinnovo.
Di questi 80 mila, solo un quarto sono davvero investiti dalle nuove norme, che escludono stagionali, pubblica amministrazione, agricoltura e contratti sotto l’anno.
Ma anche delimitato così il campo, prevedere cosa succederà è difficile. «Dipende da cosa decide l’impresa», sembra una risposta ovvia ma non lo è. L’impresa può decidere di fare contratti diversi - apprendistato, lavoro autonomo, anche l’assunzione a tempo indeterminato; può sobbarcarsi il costo maggiore del tempo determinato (se ne è parlato tanto, ma a conti fatti su una retribuzione di 1800 euro sono 9 euro al mese); può fare nuovi contratti a tempo a nuovi lavoratori, dunque buttar fuori quelli di prima; o ancora riorganizzare la sua filiera esternalizzando qualche pezzo. «Con due milioni di disoccupati in giro, il problema del turn over per le qualifiche più semplici non esiste, mentre diventa più complicato per quelle professionalità sulle quali c’è più richiesta e meno offerta», spiega Anastasia, che reputa abbastanza ottimistica la famigerata stima dell’Inps (a rischio 8000 posti all’anno con le nuove regole), costata la dichiarazione di guerra permanente del governo al presidente Tito Boeri.
Se Anastasia è abbastanza scettico sull’efficacia automatica dei cambiamenti delle norme sul lavoro, è invece certo di un fatto: anche se il tempo indeterminato, sul totale dei lavoratori italiani, resta di gran lunga prevalente, ormai da anni le nuove correnti vanno tutte sul lavoro a termine, con la sola eccezione dell’anno della decontribuzione del Jobs Act «quando le imprese hanno fatto una indigestione di tempo indeterminato». Tra i motivi strutturali dello spostamento verso il lavoro a termine, non va sottovalutato un fatto: «la rilevante crescita della produzione stagionale e di breve durata». Gran parte della ripresa occupazionale degli ultimi anni è avvenuta nei servizi, in particolare nel turismo. «E poi il settore della cultura, lo spettacolo, l’economia dei festival: qui non è la singola posizione ma proprio il posto di lavoro che è a termine, per definizione».

Una ripresa a tempo?
I dati sull’occupazione sono lì a testimoniarlo: la ripresa nell’industria è a basso contenuto di lavoro - e ancor meno di lavoro permanente - mentre i numeri più alti sono nei servizi, caratterizzati spesso non solo da stagionalità, come il turismo e il commercio, ma anche da bassa produttività e scarsa innovazione. Quella che abbiamo avuto non è una “ripresa senza occupazione” (la jobless recovery della teoria economica), ma una ripresa con lavoro povero o precario, afferma Dario Guarascio, economista dell’Inapp, che insieme ad altri ricercatori ha fatto uno studio sul nesso tra occupazione e investimenti, intitolato “Lavori più deboli, innovazione più debole”.
Il risultato è presto detto: «un ricorso intenso al lavoro temporaneo si associa a una bassa propensione all’introduzione di innovazione di prodotto». Insomma, un lavoro precario per una economia fragile, condannata ancora a una produttività molto bassa: che non si contrasta, dice Guarascio, a colpi di normativa sul lavoro (quest’ultima però «può dare un segnale simbolico di discontinuità, rispetto al precariato»), ma richiede politiche strutturali, capaci di agire sugli investimenti e sulla domanda nell’economia. Se dall’avamposto veneto del nuovo triangolo industriale enfatizzano il ruolo dinamico che comunque questa ripresa infarcita di lavoro a termine ha nella collocazione internazionale dell’Italia, queste ricerche vedono il lavoro temporaneo non come elemento di forza ma come sintomo di fragilità.
Concorda la segretaria generale della Fiom Francesca Re David, che - come storicamente il suo sindacato e la Cgil hanno sempre fatto - chiede politiche strutturali: «Con la crisi abbiamo perso il 25% della capacità industriale installata, restiamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa ma dobbiamo investire. Gli interventi fatti hanno inciso solo sulla forma, hanno redistribuito le stesse ore di lavoro tra più persone, qui serve più lavoro». Già, ma come? Politica industriale e intervento pubblico diretto, sia come volano a investimenti privati che per potenziamento del welfare che è esso stesso parte di un’economia “forte”: sono questi i cavalli di battaglia storici sebbene un po’ ammaccati del sindacato di Camusso. Che rispetto al decreto dignità ha preso una posizione intermedia, non festeggiare né sabotare.
Dalla guida dei metalmeccanici Re David la vede così: «Le imprese prendono lavoro quando ne hanno bisogno, se c’è da produrre non è che mandano a casa gente per il decreto dignità». Ma certo non sarà questo decreto a invertire la corrente, per tornare alla metafora del fiume. «È un simbolo, niente di meno e niente di più. Le regole dei contratti non possono creare lavoro, ma possono rafforzare o indebolire i lavoratori, accompagnarli o lasciarli soli; e negli ultimi anni li hanno indeboliti». Quanto al bisogno di flessibilità delle nuove produzioni, dei settori “che tirano”, e delle catene produttive mondializzate, Re David replica: «La flessibilità non è tutta uguale, e non necessariamente è precarietà. Esiste una flessibilità governata, contrattata. Il problema è che da anni ormai si intende la flessibilità solo come comando senza discussione. Nell’industria, si realizza più con gli appalti e i subappalti che con il tipo di contratto di lavoro. Ma la sostanza è la stessa».

L'ESPRESSO, 24 luglio 2018

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