I rapporti a
termine continuano a crescere.
E con la legge
presentata dal ministro 5 Stelle
la situazione
cambierà ben poco
Un fiume. Un flusso
d’acqua impetuoso, che corre preme e si incanala in tanti rivoli. E
quando ne trova uno bloccato, in un attimo va a riempirne un altro.
L’immagine è bella e bucolica. Ma la sostanza non lo è, se con la
metafora del fiume ci si riferisce al lavoro che le imprese cercano e
vogliono dare: flessibile e temporaneo, breve e imprevedibile come il
futuro. Alla piaga del lavoro precario, contro la quale la parte
pentastellata del governo ha stampato nero su bianco sul frontespizio
di un decreto la parola “dignità”, e ha dettato le nuove regole,
più rigide, del contratto di lavoro dipendente a tempo determinato.
Ma chiuso uno sbocco, la corrente prevalente del fiume rischia di
andarsene in altri, altrettanto precari, com’è successo nel
passato recente, e spesso: almeno sei volte in cinque anni, riepiloga
Bruno Anastasia, dell’osservatorio di Veneto Lavoro e grande
esperto di numeri dell’occupazione. È lui che ricorre all’immagine
del fiume in piena per raccontare cosa sta succedendo al lavoro
nell’Italia del dopo-crisi. Se guardiamo al fiume, e non ai suoi
rivoli - che si chiamano a termine, a chiamata, interinali, voucher,
intermittenti, e via via tutte le forme che il diritto del lavoro ha
dato alla grande onda - possiamo allontanarci dai duelli di giornata
sui numeri del decreto e della sua relazione, per rispondere a una
domanda di fondo: il lavoro breve è la nuova normalità della
produzione di merci e servizi? E nella corsa del fiume, vince la
legge o l’economia?
Novantacinque su
cento
Nello stesso giorno in
cui il Consiglio dei ministri approvava il decreto dignità, l’Istat
diffondeva la sua nota mensile sull’occupazione. I dati si
riferivano a maggio e dunque consentono di fare un confronto sul
flusso di lavoro dal maggio 2017 a quello di quest’anno. Su 457.000
occupati in più, solo 5.000 sono permanenti (aggettivo con il quale
l’Istat ha sostituito la dizione “a tempo indeterminato”, dopo
il Jobs Act), poi ci sono 19.000 autonomi e infine ben 434.000 a
termine. In percentuale: 95 nuovi occupati su 100 hanno un lavoro
temporaneo. Qui c’è «un cambiamento che potremmo definire
epocale», scrive Francesco Seghezzi sul bollettino di Adapt,
l’associazione fondata da Marco Biagi, chiamando in causa le
mutazioni «dei sistemi produttivi, sempre più esposti a mercati
volatili e a consumatori esigenti, il tutto rendendo necessari
livelli di flessibilità diversi da quelli del passato». Insomma, «è
difficile pensare che siamo di fronte solo a un cortocircuito
normativo».
Più che cortocircuiti,
le norme negli ultimi tempi hanno fatto una bella serie di capriole e
stop and go. Le riepiloga Anastasia: la riforma Biagi nel 2003
limita le collaborazioni e apre sui voucher e il lavoro intermittente
(a chiamata); quest’ultimo viene poi penalizzato dalla legge
Fornero, che invece fa esplodere i voucher e stringe i bulloni
del tempo determinato; arriva subito dopo Letta che li allenta un
po’, fino al ciclone Poletti (e siamo al 2014) che semplifica e
liberalizza il tempo determinato; si arriva così al Jobs Act (2015)
che invece incentiva il tempo permanente e chiude di fatto le
collaborazioni, e fa correre i voucher; infine Gentiloni che
chiude il rubinetto dei voucher, mentre risalgono
intermittente e lavori a termine. E adesso Di Maio, che restringe i
contratti a termine: ma non è finita ancora, poiché il ritorno
parlamentare dei voucher potrebbe far incanalare di nuovo tutto il
precariato nei buoni-lavoro.
Un’altalena da far
girare la testa, e che rende abbastanza vano l’esercizio sulle
previsioni post-decreto dignità.
«Le imprese si muovono
veloci sfruttando le opportunità presenti, la corrente si sposta
all’istante, sapere quale sarà il letto nuovo del fiume è
complicato», riassume Anastasia. Loro stessi, nell’ufficio studi
di Veneto Lavoro, hanno fatto dei calcoli per la regione che guida le
classifiche della produzione e dell’occupazione italiane: 80 mila i
rapporti di lavoro a termine (in Veneto) potenzialmente interessati
dalla riforma Di Maio, e dunque dalla riduzione della durata massima
da 36 a 24 mesi, dall’obbligo di dichiarare la causale dopo i 12
mesi, dalla riduzione del numero delle proroghe e dall’aumento del
costo contributivo a ogni rinnovo.
Di questi 80 mila, solo
un quarto sono davvero investiti dalle nuove norme, che escludono
stagionali, pubblica amministrazione, agricoltura e contratti sotto
l’anno.
Ma anche delimitato così
il campo, prevedere cosa succederà è difficile. «Dipende da cosa
decide l’impresa», sembra una risposta ovvia ma non lo è.
L’impresa può decidere di fare contratti diversi - apprendistato,
lavoro autonomo, anche l’assunzione a tempo indeterminato; può
sobbarcarsi il costo maggiore del tempo determinato (se ne è parlato
tanto, ma a conti fatti su una retribuzione di 1800 euro sono 9 euro
al mese); può fare nuovi contratti a tempo a nuovi lavoratori,
dunque buttar fuori quelli di prima; o ancora riorganizzare la sua
filiera esternalizzando qualche pezzo. «Con due milioni di
disoccupati in giro, il problema del turn over per le qualifiche più
semplici non esiste, mentre diventa più complicato per quelle
professionalità sulle quali c’è più richiesta e meno offerta»,
spiega Anastasia, che reputa abbastanza ottimistica la famigerata
stima dell’Inps (a rischio 8000 posti all’anno con le nuove
regole), costata la dichiarazione di guerra permanente del governo al
presidente Tito Boeri.
Se Anastasia è
abbastanza scettico sull’efficacia automatica dei cambiamenti delle
norme sul lavoro, è invece certo di un fatto: anche se il tempo
indeterminato, sul totale dei lavoratori italiani, resta di gran
lunga prevalente, ormai da anni le nuove correnti vanno tutte sul
lavoro a termine, con la sola eccezione dell’anno della
decontribuzione del Jobs Act «quando le imprese hanno fatto una
indigestione di tempo indeterminato». Tra i motivi strutturali dello
spostamento verso il lavoro a termine, non va sottovalutato un fatto:
«la rilevante crescita della produzione stagionale e di breve
durata». Gran parte della ripresa occupazionale degli ultimi anni è
avvenuta nei servizi, in particolare nel turismo. «E poi il settore
della cultura, lo spettacolo, l’economia dei festival: qui non è
la singola posizione ma proprio il posto di lavoro che è a termine,
per definizione».
Una ripresa a
tempo?
I dati sull’occupazione
sono lì a testimoniarlo: la ripresa nell’industria è a basso
contenuto di lavoro - e ancor meno di lavoro permanente - mentre i
numeri più alti sono nei servizi, caratterizzati spesso non solo da
stagionalità, come il turismo e il commercio, ma anche da bassa
produttività e scarsa innovazione. Quella che abbiamo avuto non è
una “ripresa senza occupazione” (la jobless recovery della
teoria economica), ma una ripresa con lavoro povero o precario,
afferma Dario Guarascio, economista dell’Inapp, che insieme ad
altri ricercatori ha fatto uno studio sul nesso tra occupazione e
investimenti, intitolato “Lavori più deboli, innovazione più
debole”.
Il risultato è presto
detto: «un ricorso intenso al lavoro temporaneo si associa a una
bassa propensione all’introduzione di innovazione di prodotto».
Insomma, un lavoro precario per una economia fragile, condannata
ancora a una produttività molto bassa: che non si contrasta, dice
Guarascio, a colpi di normativa sul lavoro (quest’ultima però «può
dare un segnale simbolico di discontinuità, rispetto al
precariato»), ma richiede politiche strutturali, capaci di agire
sugli investimenti e sulla domanda nell’economia. Se dall’avamposto
veneto del nuovo triangolo industriale enfatizzano il ruolo dinamico
che comunque questa ripresa infarcita di lavoro a termine ha nella
collocazione internazionale dell’Italia, queste ricerche vedono il
lavoro temporaneo non come elemento di forza ma come sintomo di
fragilità.
Concorda la segretaria
generale della Fiom Francesca Re David, che - come storicamente il
suo sindacato e la Cgil hanno sempre fatto - chiede politiche
strutturali: «Con la crisi abbiamo perso il 25% della capacità
industriale installata, restiamo il secondo Paese manifatturiero
d’Europa ma dobbiamo investire. Gli interventi fatti hanno inciso
solo sulla forma, hanno redistribuito le stesse ore di lavoro tra più
persone, qui serve più lavoro». Già, ma come? Politica industriale
e intervento pubblico diretto, sia come volano a investimenti privati
che per potenziamento del welfare che è esso stesso parte di
un’economia “forte”: sono questi i cavalli di battaglia storici
sebbene un po’ ammaccati del sindacato di Camusso. Che rispetto al
decreto dignità ha preso una posizione intermedia, non festeggiare
né sabotare.
Dalla guida dei
metalmeccanici Re David la vede così: «Le imprese prendono lavoro
quando ne hanno bisogno, se c’è da produrre non è che mandano a
casa gente per il decreto dignità». Ma certo non sarà questo
decreto a invertire la corrente, per tornare alla metafora del fiume.
«È un simbolo, niente di meno e niente di più. Le regole dei
contratti non possono creare lavoro, ma possono rafforzare o
indebolire i lavoratori, accompagnarli o lasciarli soli; e negli
ultimi anni li hanno indeboliti». Quanto al bisogno di flessibilità
delle nuove produzioni, dei settori “che tirano”, e delle catene
produttive mondializzate, Re David replica: «La flessibilità non è
tutta uguale, e non necessariamente è precarietà. Esiste una
flessibilità governata, contrattata. Il problema è che da anni
ormai si intende la flessibilità solo come comando senza
discussione. Nell’industria, si realizza più con gli appalti e i
subappalti che con il tipo di contratto di lavoro. Ma la sostanza è
la stessa».
L'ESPRESSO, 24 luglio
2018
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