Si può cambiare la
direzione della Storia? Ranuccio Bianchi Bandinelli continuò a
chiederselo mentre faceva strada al Führer durante la storica visita
in Italia nel maggio del 1938. Certo il giovane cicerone non riuscì
in questa colossale impresa, nonostante le fantasie tirannicide della
vigilia. Ma gli riuscì un altro capolavoro che può essere
annoverato nella storia meno nota della rivincita dell'intelligenza
contro la mediocrità del potere, del gusto contro la rozzezza, della
vivacità della cultura contro la vacuità imbolsita dei due grandi
dittatori. E solo uno sguardo cinematografico poteva valorizzare
questa vendetta postuma dello studioso senza aver bisogno di
inventare niente: bastano gli straordinari materiali dell'Istituto
Luce, rivisitati con ritmo e ironia dal regista Enrico Caria, con il
montaggio di Fabrizio Campioni, in un film che sarà presentato a
settembre alla mostra di Venezia. Con un piccolo-grande ribaltamento
di ruoli che è la trovata del nuovo lavoro.
Perché i protagonisti
non sono più i due tiranni, i padroni della Terra che in quella
primavera del totalitarismo europeo devono ancora decidere come
spartirsi il dominio, ma l'elegante guida che nei quattro giorni di
maggio compare al loro fianco durante la visita ai musei di Roma e
Firenze. Figura slanciata, incedere disinvolto, il fez moderatamente
napputo, quasi a mitigare il lato grottesco della tragica operetta. È
lui la vera star del racconto, il professor Bianchi Bandinelli, 38
anni, futuro maestro di generazioni di archeologi. È Ranuccio L'uomo
che non cambiò la Storia - come recita il titolo del film prodotto
da Luce-Cinecittà - ma che ne capovolse certo la prospettiva,
impugnando le armi a lui più famigliari della prosa tagliente e del
disincanto ironico.
Tutto ebbe inizio da un
telegramma che nella primavera del 1938 rompe l'agiata tranquillità
della casa fiorentina dei Bianchi Bandinelli Paparoni, famiglia di
patrizi senesi che risale all'epoca di Carlo Magno con una sfilza di
pontefici e relazioni illustri. Sarà anche per la sua longeva storia
famigliare, il giovane e stimato Ranuccio, già ordinario
all'Università di Pisa, non si scuote più di tanto dinanzi alla
convocazione del ministero della Pubblica Istruzione. Motivo del
colloquio riservato? Lo scoprirà qualche giorno più tardi a Roma:
il suo uso di mondo e la conoscenza del tedesco - gli spiega un alto
papavero - lo rendono perfetto per fare da guida al Führer durante
la visita in Italia. Un bel guaio. Lui è "un antifascista
generico" - come scrive nei suoi taccuini - non ha legami con la
clandestinità comunista, è un liberale con simpatie crescenti per
il movimento fondato dai fratelli Rosselli. Ora è davanti a un
bivio: se accetta si compromette con un regime che disprezza, ma se
rifiuta compromette i suoi studi e la sua famiglia. Che fare?
L'esito del dilemma etico
è quasi scontato, sotto un regime che non ammette dinieghi. Ecco
Ranuccio affrettarsi all'Unione Militare per acquistare "la più
scalcinata delle divise da fascista", camicia nera come vuole il
programma ma senza decorazioni, no quelle proprio non le vuole,
sconvolgendo "l'esperienza psicologica del ministro Cortini"
assediato dalle richieste di croci e di aquile e di decorazioni
purchessia. E mentre attende alla preparazione sartoriale
dell'augusta visita - ma succede anche nei dormiveglia notturni - i
suoi pensieri corrono e s'intorcinano, fino a impennarsi nell'unica
fantasticheria che possa dare un senso a quella pagliacciata. E se
uccidessi i due tiranni? Se mi facessi saltare in aria mentre salgo
con loro sul predellino dell'automobile? O se approfittassi del
passaggio nel corridoio che unisce gli Uffizi a Palazzo Pitti?
Nessuno più di lui
poteva conoscere i dettagli del programma. E più l'attentato prende
meticolosa forma nella sua testa, più il professore cerca argomenti
contrari alla clamorosa occasione offerta dalla Storia. Fino ad
ammettere la propria inconcludenza di "tenebroso e impotente
macchinatore", solo e paralizzato di fronte all'inazione.
Così almeno ci racconta
il nostro eroe mancato nello straordinario resoconto di quella
missione (uscito tempo fa da e/o Hitler e Mussolini. 1938 Il viaggio
del Führer in Italia ) e non sappiamo se sia un supremo tentativo di
giustificazione anche con la propria coscienza prima di balzare al
fianco dei due tiranni, la mattina di venerdì 6 maggio 1938. Ma qui
comincia un'altra vicenda, quella più autentica, che il film di
Caria restituisce anche nella sua vena umoristica attraverso la
tessitura di documenti storici e spezzoni cinematografici, con i
disegni di Spartaco Ripa e la supervisione musicale di Pivio: la
rivincita dell'inetto cospiratore che non potendo cambiare il corso
della Storia può però mostrarne tutta la sua grottesca
insensatezza. A cominciare dai due protagonisti del Novecento
impietosamente tratteggiati tra il Museo delle Terme e la Galleria
Borghese, tra un plastico della romanità e il nudo di Paolina
Bonaparte. Due modesti burattini malriusciti, Mussolini "con le
mosse oblique del capo che vorrebbero mitigare la sua massiccità ma
sono soltanto goffe e sinistre", Hitler forse meno repulsivo,
"composto, ordinato, quasi servile, qualcosa come un controllore
di un tram".
E le immagini
dell'Istituto Luce non fanno che amplificare le divertite cronache di
Ranuccio, l'unico che sembra davvero a suo agio tra sarcofagi
paleocristiani e sculture barocche. I gesti flessuosi, la postura
disinvolta di chi ha secoli di storia alle spalle, attenuano la
plumbea rigidità dell'ex maestro di Predappio e dell'ex imbianchino
bavarese come imbambolati dinanzi ai tesori d'arte. Con una
sostanziale differenza, che non sfugge all'accorta guida. "Mentre
Mussolini non nascondeva il suo disinteresse o passando per le sale
senza guardare o accostandosi a un'opera a leggere il cartellino per
poi restare un po' di fronte ad essa a pancia protesa a guardarla
come se fosse un muro bianco, Hitler amava realmente le false qualità
artistiche che scopriva e se ne commuoveva. Come si commuove agli
acuto del tenore il barbiere appassionato di musica". Insomma
due patetici dilettanti, il primo più sfacciato nell'ostentare la
propria ignoranza, salvo pietire "con sguardo penoso"
l'aiuto del suo Cicerone quando teme di non essere all'altezza
dell'ospite; l'altro animato da pretese artistiche aggravate da una
insopprimibile vocazione alla simulazione e all'inganno. Ipnotizzato
soprattutto dai nudi di Afrodite e di Paolina, il Füher arriva a
confessare al professore che, sistemate le cose in Germania, sarebbe
tornato in Italia per visitare in incognito i monumenti. "Sì,
proprio lui che ha messo al bando i Manet, i Cezanne, i van Gogh...".
Per fortuna Hitler non ha ancora il dono di leggere nei pensieri.
Non cambiò la storia,
Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma poté cambiar presto la sua vita.
Ritiratosi di nuovo nell'ombra, alla fine di quello stesso anno
avrebbe rinunciato alla prestigiosa direzione del Scuola archeologica
italiana di Atene lasciata libera da Alessandro della Seta cacciato
perché ebreo. Dopo la guerra entrerà nel Pci proponendo ai suoi
mezzadri una gestione collettiva della terra. I suoi libri
rivoluzioneranno la storia dell'arte e l'archeologia. Come sarebbero
andate le cose se davvero avesse ucciso i due tiranni? Non se l'è
mai domandato, sapendo che la storia non si fa con i se.
“la Repubblica”, 9
agosto 2016
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