8.8.18

Ranuccio Bianchi Bandinelli: l'uomo che non riuscì a uccidere i due dittatori (Simonetta Fiori)


Si può cambiare la direzione della Storia? Ranuccio Bianchi Bandinelli continuò a chiederselo mentre faceva strada al Führer durante la storica visita in Italia nel maggio del 1938. Certo il giovane cicerone non riuscì in questa colossale impresa, nonostante le fantasie tirannicide della vigilia. Ma gli riuscì un altro capolavoro che può essere annoverato nella storia meno nota della rivincita dell'intelligenza contro la mediocrità del potere, del gusto contro la rozzezza, della vivacità della cultura contro la vacuità imbolsita dei due grandi dittatori. E solo uno sguardo cinematografico poteva valorizzare questa vendetta postuma dello studioso senza aver bisogno di inventare niente: bastano gli straordinari materiali dell'Istituto Luce, rivisitati con ritmo e ironia dal regista Enrico Caria, con il montaggio di Fabrizio Campioni, in un film che sarà presentato a settembre alla mostra di Venezia. Con un piccolo-grande ribaltamento di ruoli che è la trovata del nuovo lavoro.
Perché i protagonisti non sono più i due tiranni, i padroni della Terra che in quella primavera del totalitarismo europeo devono ancora decidere come spartirsi il dominio, ma l'elegante guida che nei quattro giorni di maggio compare al loro fianco durante la visita ai musei di Roma e Firenze. Figura slanciata, incedere disinvolto, il fez moderatamente napputo, quasi a mitigare il lato grottesco della tragica operetta. È lui la vera star del racconto, il professor Bianchi Bandinelli, 38 anni, futuro maestro di generazioni di archeologi. È Ranuccio L'uomo che non cambiò la Storia - come recita il titolo del film prodotto da Luce-Cinecittà - ma che ne capovolse certo la prospettiva, impugnando le armi a lui più famigliari della prosa tagliente e del disincanto ironico.
Tutto ebbe inizio da un telegramma che nella primavera del 1938 rompe l'agiata tranquillità della casa fiorentina dei Bianchi Bandinelli Paparoni, famiglia di patrizi senesi che risale all'epoca di Carlo Magno con una sfilza di pontefici e relazioni illustri. Sarà anche per la sua longeva storia famigliare, il giovane e stimato Ranuccio, già ordinario all'Università di Pisa, non si scuote più di tanto dinanzi alla convocazione del ministero della Pubblica Istruzione. Motivo del colloquio riservato? Lo scoprirà qualche giorno più tardi a Roma: il suo uso di mondo e la conoscenza del tedesco - gli spiega un alto papavero - lo rendono perfetto per fare da guida al Führer durante la visita in Italia. Un bel guaio. Lui è "un antifascista generico" - come scrive nei suoi taccuini - non ha legami con la clandestinità comunista, è un liberale con simpatie crescenti per il movimento fondato dai fratelli Rosselli. Ora è davanti a un bivio: se accetta si compromette con un regime che disprezza, ma se rifiuta compromette i suoi studi e la sua famiglia. Che fare?
L'esito del dilemma etico è quasi scontato, sotto un regime che non ammette dinieghi. Ecco Ranuccio affrettarsi all'Unione Militare per acquistare "la più scalcinata delle divise da fascista", camicia nera come vuole il programma ma senza decorazioni, no quelle proprio non le vuole, sconvolgendo "l'esperienza psicologica del ministro Cortini" assediato dalle richieste di croci e di aquile e di decorazioni purchessia. E mentre attende alla preparazione sartoriale dell'augusta visita - ma succede anche nei dormiveglia notturni - i suoi pensieri corrono e s'intorcinano, fino a impennarsi nell'unica fantasticheria che possa dare un senso a quella pagliacciata. E se uccidessi i due tiranni? Se mi facessi saltare in aria mentre salgo con loro sul predellino dell'automobile? O se approfittassi del passaggio nel corridoio che unisce gli Uffizi a Palazzo Pitti?
Nessuno più di lui poteva conoscere i dettagli del programma. E più l'attentato prende meticolosa forma nella sua testa, più il professore cerca argomenti contrari alla clamorosa occasione offerta dalla Storia. Fino ad ammettere la propria inconcludenza di "tenebroso e impotente macchinatore", solo e paralizzato di fronte all'inazione.
Così almeno ci racconta il nostro eroe mancato nello straordinario resoconto di quella missione (uscito tempo fa da e/o Hitler e Mussolini. 1938 Il viaggio del Führer in Italia ) e non sappiamo se sia un supremo tentativo di giustificazione anche con la propria coscienza prima di balzare al fianco dei due tiranni, la mattina di venerdì 6 maggio 1938. Ma qui comincia un'altra vicenda, quella più autentica, che il film di Caria restituisce anche nella sua vena umoristica attraverso la tessitura di documenti storici e spezzoni cinematografici, con i disegni di Spartaco Ripa e la supervisione musicale di Pivio: la rivincita dell'inetto cospiratore che non potendo cambiare il corso della Storia può però mostrarne tutta la sua grottesca insensatezza. A cominciare dai due protagonisti del Novecento impietosamente tratteggiati tra il Museo delle Terme e la Galleria Borghese, tra un plastico della romanità e il nudo di Paolina Bonaparte. Due modesti burattini malriusciti, Mussolini "con le mosse oblique del capo che vorrebbero mitigare la sua massiccità ma sono soltanto goffe e sinistre", Hitler forse meno repulsivo, "composto, ordinato, quasi servile, qualcosa come un controllore di un tram".
E le immagini dell'Istituto Luce non fanno che amplificare le divertite cronache di Ranuccio, l'unico che sembra davvero a suo agio tra sarcofagi paleocristiani e sculture barocche. I gesti flessuosi, la postura disinvolta di chi ha secoli di storia alle spalle, attenuano la plumbea rigidità dell'ex maestro di Predappio e dell'ex imbianchino bavarese come imbambolati dinanzi ai tesori d'arte. Con una sostanziale differenza, che non sfugge all'accorta guida. "Mentre Mussolini non nascondeva il suo disinteresse o passando per le sale senza guardare o accostandosi a un'opera a leggere il cartellino per poi restare un po' di fronte ad essa a pancia protesa a guardarla come se fosse un muro bianco, Hitler amava realmente le false qualità artistiche che scopriva e se ne commuoveva. Come si commuove agli acuto del tenore il barbiere appassionato di musica". Insomma due patetici dilettanti, il primo più sfacciato nell'ostentare la propria ignoranza, salvo pietire "con sguardo penoso" l'aiuto del suo Cicerone quando teme di non essere all'altezza dell'ospite; l'altro animato da pretese artistiche aggravate da una insopprimibile vocazione alla simulazione e all'inganno. Ipnotizzato soprattutto dai nudi di Afrodite e di Paolina, il Füher arriva a confessare al professore che, sistemate le cose in Germania, sarebbe tornato in Italia per visitare in incognito i monumenti. "Sì, proprio lui che ha messo al bando i Manet, i Cezanne, i van Gogh...". Per fortuna Hitler non ha ancora il dono di leggere nei pensieri.
Non cambiò la storia, Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma poté cambiar presto la sua vita. Ritiratosi di nuovo nell'ombra, alla fine di quello stesso anno avrebbe rinunciato alla prestigiosa direzione del Scuola archeologica italiana di Atene lasciata libera da Alessandro della Seta cacciato perché ebreo. Dopo la guerra entrerà nel Pci proponendo ai suoi mezzadri una gestione collettiva della terra. I suoi libri rivoluzioneranno la storia dell'arte e l'archeologia. Come sarebbero andate le cose se davvero avesse ucciso i due tiranni? Non se l'è mai domandato, sapendo che la storia non si fa con i se.

“la Repubblica”, 9 agosto 2016

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