Il XIX congresso del
Partito comunista sovietico fu celebrato nell’ottobre del 1952, con
Stalin ancora vivo.
Nella ritualità dei
congressi di partito c’è sempre un messaggio nascosto, quale che
sia il partito, in quella dei congressi dei partiti comunisti questi
significati impliciti erano ancora più importanti, eloquenti, ma
anche criptici, simbolici. C’era tutta una presentazione
scenografica del personale politico in cui tutto, a cominciare
dall’ordine nel quale avvenivano gli interventi, significava sempre
qualcosa.
Il XIX congresso del
Partito comunista sovietico, il primo che si celebrava dopo la fine
della guerra nel '45, vide una novità molto significativa: non ci fu
il rapporto politico di Stalin, segretario generale del partito, che
di norma costituisce l’architrave di un congresso. Lo fece al suo
posto un dirigente che fino ad allora non era stato in primissima
linea e che evidentemente veniva così indicato da Stalin come suo
successore, cioè Georgij Maksimilianovic Malenkov, il quale
pronunciò un torrenziale discorso di apertura del congresso
tracciando la storia degli anni successivi alla vittoria nella
guerra, e soprattutto presentando il bilancio delle difficoltà
economiche con cui si scontrava la ricostruzione dell’Unione
Sovietica.
Insomma, tutti capirono
che Malenkov era il nuovo astro nascente della politica sovietica.
Stalin si limitò a parlare soltanto alla fine, con un breve
intervento, quasi un saluto al congresso, che fece epoca. Siamo
soliti pensare agli anni del dopoguerra come ad anni di tensione con
la nascita del Cominform e la spinta dei partiti comunisti
dell’Europa occidentale a radicalizzare le loro posizioni, ad
essere più rigidi, più aggressivi. In controtendenza, Stalin
pronunciò parole che parvero totalmente difformi da una tale
impostazione.
Il breve intervento che
Stalin fece per salutare il XIX congresso e commentare la situazione
mondiale forniva direttive essenziali che si possono dividere in due
ambiti concettuali. Da un lato, osservò, per l’Unione Sovietica
era assolutamente indispensabile l’appoggio da parte di tutto il
movimento comunista, sia dei paesi diventati socialisti che dei
partiti comunisti occidentali all’opposizione. Una sorta di
chiamata a raccolta intorno all’epicentro del sistema socialista.
Questo è abbastanza tradizionale. Quello che invece sconcertò e
parve una vera novità, e certamente lo era, fu l’appello ai
partiti comunisti occidentali a non arroccarsi in posizioni settarie
bensì ad abbracciare, per così dire, le parole d’ordine
tradizionali della sinistra democratica, non comunista. Ebbe tra
l’altro a dire Stalin: «Un tempo la borghesia si permetteva di
fare del liberalismo, difendeva le libertà democratico-borghesi, e
in tal modo si creava una sua popolarità. Oggi del liberalismo non è
rimasta traccia, non vi è più libertà individuale e i diritti
della persona sono riconosciuti solo a chi possiede il capitale.
Tutti gli altri sono considerati grezzo materiale umano, adatto ad
essere sfruttato. Viene calpestato il principio dell’uguaglianza
dei diritti degli uomini e delle nazioni, esso è sostituito dal
principio dei pieni diritti solo per la minoranza degli sfruttatori e
della mancanza di diritti per gli sfruttati. La bandiera delle
libertà democratico-borghesi la borghesia l’ha buttata a mare. Io
penso», concludeva Stalin «che tocca a voi, rappresentanti dei
partiti comunisti e democratici, risollevarla e portarla avanti se
volete raggruppare attorno a voi la maggioranza del popolo».
Questa formulazione era,
in sostanza, il riconoscimento della giustezza della linea politica
di larghe alleanze con forze diverse, avente per obbiettivo le grandi
riforme strutturali. Era la linea che i comunisti italiani, in
particolare, avevano mantenuto e praticato nonostante la formazione
del Cominform e i rimproveri che in sede di Cominform venivano
rivolti loro per essere troppo parlamentaristici. Per loro fu un
grande riconoscimento il fatto che il massimo dirigente del comunismo
mondiale si accorgesse che quella era la linea più produttiva. Ed è
importante anche che nelle parole che Stalin pronuncia ci sia,
proprio in conclusione, questo riferimento alle libertà
democratico-borghesi, le libertà civili e i diritti individuali, che
vengono calpestati in Occidente in omaggio al principio del profitto
e alla legge de più forte. Secondo Stalin queste libertà devono
diventare un elemento centrale della lotta politica che i comunisti
conducono insieme con altri partiti democratici di varia estrazione,
per conseguire «la maggioranza del popolo».
Questa formula significa
molto chiaramente che le scorciatoie per il potere, che possono
essere definite anche rivoluzione, colpo di stato, ricorso alla
violenza, venivano da quel momento accantonate e considerate una via
sbagliata. La via giusta era quella di conseguire «la maggioranza
del popolo», cioè ottenerne il consenso. Nel suo ultimo intervento
pubblico di partito Stalin raccomandava questo.
Naturalmente la visione
che ho cercato di far emergere qui, del chiaroscuro che caratterizza
il mondo comunista all’inizio degli anni Cinquanta, va arricchita
di ulteriori sfumature. C’era stata la rottura con Tito, e questo
aveva determinato una dura spinta repressiva verso tutti i gruppi
interni ai vari partiti comunisti che simpatizzassero per lui. Era
stata lanciata una campagna contro il nazionalismo, indicandosi
appunto in Tito e nella vicenda jugoslava una esperienza da
condannare. Per altro verso c’era stata, da parte sovietica, una
forte propensione a sostenere e difendere lo Stato di Israele, nato
per decisione delle Nazioni Unite, su iniziativa americana e
sovietica, contro 1 opposizione inglese. Questo aveva provocato una
guerra, la prima guerra arabo-israeliana del 48, in cui i sovietici
armavano attraverso la Cecoslovacchia gli israeliani mentre gli
inglesi armavano l'Egitto e la Giordania. Quando, però, i rapporti
internazionali cominciano a cambiare, e Israele si pone in una
posizione equidistante fra i due blocchi o addirittura comincia a
guardare ad, Occidente, all’interno dell’Unione Sovietica c’è
una stretta che colpisce la comunità ebraica, molti dei cui
componenti tentano di emigrare in Israele.
Il famigerato processo
dei medici che dopo la morte di Stalin venne sconfessato perché
infondato nelle sue stesse premesse è un episodio sintomatico di
questo clima.
Insomma, molti aspetti
contrastanti si intrecciavano fra di loro. Abbiamo considerato prima
le parole pronunciate da Stalin nell'ottobre 52, di apertura verso le
formazioni democratiche di altra ispirazione, ma non si deve
dimenticare, quando si ricostruisce questo chiaroscuro, una sorta di
contraddittorietà della politica di Stalin negli ultimi anni della
sua vita. C’è però un punto fermo in tutto l’ultimo periodo ed
è la riluttanza ad accettare la cristallizzazione dei due blocchi
attraverso la divisione della Germania.
In questa situazione di
spinte che vanno in diverse direzioni, Stalin muore il 5 marzo del
1953.
da 1956. L'anno spartiacque, Sellerio 2008
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