“Dignità umana la
lezione attuale del ’68.
Per noi la politica era vivere in modo
diverso.
Oggi l’impegno è l’anti-razzismo”
È stato uno dei
leader del ’68 e tra i fondatori di Lotta Continua. Guido Viale, 75
anni, sociologo, scrive saggi, si occupa di economia, modelli di
sviluppo e ambiente. Gli chiediamo, cinquant’anni dopo, di
spiegarci quella stagione che sembra ormai assorbita nella società
dello spettacolo: è possibile darne una definizione minima che
ricollochi il periodo nella storia?
«La domanda non
corrisponde né alla mia esperienza personale né a quella di gruppo.
Il ’68, con la sua dilatazione all’autunno caldo del ’69, è
stato un movimento molto chiuso su se stesso, concentrato sulle cose
che faceva e non sulla loro rappresentazione pubblica. L’idea che
la società dello spettacolo si sia sviluppata da quella stagione è
una sciocchezza che ha molti autorevoli sostenitori, come il filosofo
Mario Perniola, morto da poco, che ha messo in un rapporto di
continuità il ’68, cioè l’idea della fantasia al potere, con la
cultura spettacolare del berlusconismo».
Il ’68, in
particolare a Torino, è nato prima del ‘68. Come si è passati
dalla protesta generalizzata all’azione politica?
«In realtà la protesta
era già nata come protesta politica e l’azione politica è stata
in gran parte una protesta, nel senso che poi difficilmente è
riuscita a raggiungere risultati consolidati, se non la creazione di
un clima di libertà prima nelle università e nelle scuole, poi
nelle fabbriche e per un certo periodo anche nella vita associata
delle città. Un posto dove studenti, operai e cittadini, soprattutto
proletari e poveri, si sentivano meno esclusi e trascurati, più
protagonisti».
Quindi fin dall’inizio
c’era una coscienza politica precisa?
«No, se per coscienza
politica s’intende un’ideologia oppure un’appartenenza
politica, escludendo i pochissimi gruppetti già politicizzati.
Piuttosto, la cascata di ideologie marxiste-leniniste è arrivata
dopo, come conseguenza del ’68 che aveva aperto certi spazi con la
sua contestazione (come si chiamava allora) della gerarchia e
dell’autoritarismo».
Lotta Continua pensava
veramente che una rivoluzione comunista sarebbe stata possibile?
«Credo che noi, come
Lotta Continua, la parola rivoluzione non l’abbiamo mai usata, e se
l’abbiamo fatto è stato molto tardi. Vivevamo il comunismo, a cui
dicevamo di appartenere, secondo il detto di Marx per cui il
comunismo è il movimento reale che cambia le cose. Abbiamo sempre
vissuto, soprattutto nella prima fase di formazione
dell’organizzazione, la nostra lotta e la nostra partecipazione
alla vita politica come un processo che aveva il suo fine in se
stesso, cioè nello spazio di libertà, di autonomia, anche di
cultura, di maturazione, che la partecipazione alla lotta ci dava.
Indubbiamente c’erano degli obiettivi politici di volta in volta:
scioperi, lotte; ma fin dall’inizio abbiamo cercato di porre
l’accento sul fatto che lottare era anzitutto una maniera di vivere
in modo diverso».
Molto poco
leninisti...
«A partire dal 1972 o
’73 ci siamo anche dichiarati leninisti, ma era uno scimmiottamento
di altre organizzazioni che avevano fatto del leninismo la loro
bandiera. Sostanzialmente l’abbiamo praticato molto poco e comunque
è stato uno degli elementi di degenerazione della nostra
organizzazione».
Alcuni sostengono che
il ’68 abbia spostato la cultura sindacale da un approccio
quantitativo a uno qualitativo, preparando la strada al declino della
stagione dei grandi contratti di lavoro e del sindacalismo stesso;
altri ancora pensano che l’indebolimento sessantottino dei valori
tradizionali abbia di fatto predisposto il terreno all’avvento
della globalizzazione neoliberale. Che cosa ne pensa?
«La distinzione tra
lotta sindacale e lotta politica era il residuo di una vecchia
tradizione del movimento operaio che non aveva spazio nel modo in cui
la lotta veniva vissuta dagli operai e dagli studenti di quegli anni.
Allora si percepiva la lotta come immediatamente politica anche
quando aveva caratteri sindacali. Per quanto riguarda i valori
borghesi tradizionali, come la famiglia, la moralità e
l’appartenenza nazionale, sono stati indubbiamente dei bersagli
cruciali del ’68, secondo me sacrosanti. Oggi il neoliberalismo si
sta riappropriando proprio di quei valori nel tentativo di difendersi
contro una contestazione che in qualche modo sta crescendo anche se
non ha un volto direttamente politico. Si vorrebbero recuperare quei
valori borghesi, tanto è vero che i partiti che oggi li invocano
come i partiti della destra nazionalista e razzista non hanno niente
da eccepire contro il neoliberalismo. Forse molto contro la
globalizzazione, ma non contro le privatizzazioni o contro la
finanziarizzazione che anzi sostengono».
L’antifascismo, di
cui si torna oggi a parlare, è stata una componente essenziale del
’68. Non pensa che sia stato anche il salvagente identitario di una
sinistra che non perseguiva più obiettivi di sinistra?
«Di fronte a una
crescita del Msi, dei movimenti di destra e dell’azione
squadristica, e anzitutto di fronte alla strategia della tensione,
abbiamo di fatto praticato un antifascismo che ha talvolta messo in
secondo piano l’obiettivo per cui ci eravamo mossi: la
trasformazione della società. Oggi il problema centrale che ci
troviamo di fronte non è tanto il fascismo in sé quanto il
razzismo, anche se i due vanno insieme. La crescita dei movimenti di
destra, anche quelli che si ispirano direttamente al fascismo, come
CasaPound o Forza Nuova, in realtà hanno alla base del loro
reclutamento (riuscendo a coinvolgere anche Salvini) non tanto il
richiamo al fascismo, che resta un tratto permanente e ineliminabile
nella società italiana, ma il razzismo e l’odio per gli immigrati.
Mobilitarsi contro il razzismo, con azioni positive e non solo con
richiami ideologici, è negli intenti di tutti coloro che oggi sono
impegnati in azioni di accoglienza e sostegno alle comunità
immigrate. L’antirazzismo è diventato una componente prioritaria
dell’azione politica».
Se si presentassero le
condizioni per un nuovo ’68, che cosa toglierebbe e cosa
aggiungerebbe rispetto ad allora?
«La cosa che più
potrebbe essere recuperata del ‘68 è la rivendicazione della
dignità degli esseri umani, questo era il contenuto di fondo
dell’antiautoritarismo di allora sia nelle scuole sia nelle
fabbriche».
“La Stampa”,
22/03/2018
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