Guido Viale durante una manifestazione |
È difficile, forse
impossibile negare che la contestazione studentesca di trent’anni
fa nelle aule universitarie italiane sia stata caratterizzata da una
certa e insistita insolenza. Il giudizio si ricava dall’esperienza
personale (ero già dall’altra parte, assistente volontario in
procinto di assumere un insegnamento) ma anche dai documenti e dalle
testimonianze che di quel momento rimangono. Insolenti gli studenti
del Sessantotto prima di tutto verso l’istituzione università e
verso i professori.
A Torino, il 22 novembre
1967, alcune centinaia di studenti assediano il senato accademico
dell’Università che deve deliberare su un possibile trasferimento
dell’ateneo nel parco della Mandria. (Si noti che oggi si fanno
piani per trovare luoghi in cui trasferire le facoltà umanistiche e
quelle scientifiche che difettano di spazi e di strutture).
L’ultimatum è chiaro: «O ci lasciate entrare o sfondiamo la
porta». Con un megafono - raccontano le cronache - imitano i tre
squilli della carica, poi a spallate sfondano l’uscio e invadono
l’aula. La seduta viene sospesa e riprenderà due ore dopo.
Nelle settimane
successive si crea, di fronte all’occupazione della sede storica di
Palazzo Campana, una divisione abbastanza netta tra i professori: una
minoranza consistente di questi ultimi, e tra loro ci sono alcuni tra
gli intellettuali più noti e prestigiosi dell’ateneo torinese,
accetta di confrontarsi con i giovani, di sostituire alle lezioni
cattedratiche incontri seminariali, di discutere il significato di
quello che insegnano. Ma la maggioranza è troppo colpita
dall’insolenza e si chiude in un indignato silenzio.
Gli occupanti scrivono in
un loro volantino: «Non ci interessa che una ventina di studenti
possano mettere in discussione i temi e i metodi di studio del
seminario “pilota” di dialettologia, come ha proposto il
professor Corrado Grassi, quando trecento studenti continuano a dover
assistere passivamente alle lezioni del professor Giovanni Getto. Non
ci interessa l’isola felice di Filosofia del diritto - come hanno
proposto Norberto Bobbio e Alessandro Passerin d’Entrèves - quando
Giuseppe Grosso e Mario Allara continuano a imporre cose inutili a
mille studenti ricattandoli con le firme».
Qui il riferimento era
alla frequenza obbligatoria che poteva prestarsi effettivamente a
tirannie ma rendeva l’università italiana più simile a quelle
europee, giacché, se non si frequenta, l'università non è che un
triste esamificio. Mario Allara era il Magnifico Rettore contro il
quale si appuntavano di più gli strali dei contestatori.
Ma forse l’episodio più
significativo di insolenza all’Università di Torino fu la scelta
di uno dei leader della contestazione, Guido Viale, di strappare i
libri a quinterni durante i controcorsi organizzati dagli studenti
per mostrare a questi ultimi visivamente come la cultura fosse divisa
e incapace di restituire davvero il sapere nella sua integralità ai
giovani. Su questo episodio era nata negli anni una leggenda che è
stata raccolta dopo qualche tempo da Enzo Siciliano su “Nuovi
Argomenti”. Lì e altrove si è parlato di un “rogo dei libri"
compiuto dagli occupanti nell’Università di Torino. In realtà lo
strappo dei libri aveva tutt’altro significato e si legava al tema
della cultura divisa, spezzata che fu al centro di tante discussioni,
dentro e fuori l’università.
L’altra insolenza fu
quella esercitata contro la grande massa degli studenti che non
partecipavano alle discussioni. Per molti mesi un’assemblea di
qualche centinaio di studenti monopolizzò il rapporto con le
istituzioni, parlò a nome di tutta la popolazione studentesca,
presentò una carta rivendicativa che teneva conto soprattutto dei
bisogni e delle esigenze dei frequentanti piuttosto che di tutti. Di
fronte a questo e ad altri atteggiamenti insolenti ci fu da parte
dell’università un muro di gomma: i voti salirono, gli appelli
aumentarono, i piani di studio si liberalizzarono. Ma trent’anni
dopo è impossibile concludere che l’università allora cambiò e
divenne davvero moderna. Non lo è ancora.
L'Espresso 5 marzo 1998
Nessun commento:
Posta un commento