Avrebbe dovuto
concludersi con uno squillante zero a zero, il risultato perfetto, e
invece andò a finire 6-3, paradossalmente un esito infamante sia per
Annibale Frossi sia per un Nereo Rocco che, prima del calcio
d’inizio, si era limitato a dire ai suoi, gli ineffabili «manzi»,
Zoghé come ve gh'ha insegna' vostra mare. È una domenica di
pieno inverno, il 2 febbraio 1958, quando nella buca fangosa
dell’Appiani, a Padova, a un passo da Prato della Valle, arriva il
Genoa guidato in panchina dall’ingegner Annibale Frossi,
l’occhialuta ala destra di Berlino 1936, un ex subalterno del Pepp
Meazza poi divenuto teorico insigne e persino cavilloso del calcio
all’italiana, quasi un causidico del risultato a reti bianche, il
quale sa benissimo che sulla panca dei biancoscudati lo sta intanto
aspettando il genio empirico della sua stessa scuola.
Frossi ha un portavoce in
campo che si chiama Julio César Abbadie, uruguaiano di classe
smagliante e di estri in proporzione inversi alla continuità: tocca
a lui aprire il gioco e condurlo facendo salire la squadra. Rocco
viceversa ha dalla sua una torma di duri muscolari (difensori arcigni
quali Azzini e Scagnellato o imponenti come Ivano Blason) e
dissimula, chiudendo la difesa, i tre fuoriclasse che illustrano la
squadra più fischiata e diffamata d’Italia: l’italo-argentino
Humberto Rosa, un regista capace di goleare e di dettare i tempi, il
centravanti Sergio Brighenti, letale stoccatore in area, infine
un’ala destra svedese, Kurt Hamrin, appena avuta in prestito dalla
Juventus. Dunque al Genoa va il dubbio onore di attaccare e al
Padova, la squadra di casa, spetta invece il contropiede più
classico: come non bastasse, in conferenza stampa Rocco ha voluto
inchinarsi al collega laureato omaggiandolo di un titolo, Xè el
me maestro, che all’altro non promette nulla di buono. Fatto
sta che a soli tre minuti dalla fine del primo tempo il Genoa è
sotto di cinque gol, quattro dei quali su azioni che tutte si
somigliano e portano la firma dello svedese velocissimo che si lancia
nel vuoto alle spalle dei rossoblù, duettando in progressivo con
Brighenti e Rosa, per concludere indifferentemente di destro e
sinistro, una volta anche di testa: sembra che qualcuno in tribuna a
questo punto esclami Xè come darghe ai fioi («è come
picchiare i bambini») mentre Gianni Brera, l’indomani riferendone
su “Il Giorno”, definisce a tutte lettere Kurt Hamrin «un
gigante».
Il gigante è alto appena
169 cm. (per 69 kg. di peso) ed è nato a Stoccolma, figlio di un
imbianchino, il 19 novembre del 1934; apprendista di tipografia (come
Giovanni Trapattoni) dopo alcuni armi all’AIK, lo ha acquistato per
la stagione 56-‘57 la Juventus. A Torino non è andato male (8 gol
in 23 partite) ma un infortunio recidivo al piede destro ne ha molto
limitato il rendimento nonostante avesse compagni di squadra, fra gli
altri, un raffinato centravanti, Lello Antoniotti, e nientemeno
Giampiero Boniperti all’apice della carriera ma frustrato nel suo
narcisismo di goleador perché appena retrocesso da punta avanzata a
interno di regia. Si sospetta, come per altri fuoriclasse cacciati
dalla Juve - su tutti Helge Bronée e Eduardo Ricagni - che sia stato
proprio Boniperti, intrinseco per così dire della famiglia Agnelli,
a proporre il trasloco di Hamrin, se nelle memorie giovanili dettate
a Gian Paolo Ormezzano (La mia Juventus, prefazione di Carlin,
1958) così lo ritrae: «Svedesino intelligente e calcolatore, che
però da noi non rese al massimo delle sue possibilità, per
incidenti vari e difficoltà di ambientamento». Tali difficoltà è
probabile consistessero nel rifiuto di essere sottomesso agliordini
del capitano o di passare sempre a lui il pallone con l’automatismo
servile di quasi tutti gli altri.
Nell’estate del ’57,
nonostante Boniperti, arrivano a Torino John Charles e Omar Sivori:
Hamrin li segue in tournée nella sua Svezia, con loro compie
mirabilie ma al ritorno è «tagliato» dalla rosa in quanto
straniero soprannumerario.
Perciò va in provincia
da Rocco, notoriamente un rigeneratore di vecchi giubilati come di
talenti incompiuti: ed è lì, nella stagione irripetibile in cui il
Padova dei «manzi» si classifica terzo dietro Juve e Fiorentina,
che Hamrin, con le sue 19 reti in 30 partite, viene davvero
battezzato fuoriclasse. La sua fisionomia è indimenticabile:
brevilineo, evolve a piccoli passi lungo l’out, non ha grande
falcata ma è capace di guizzi improvvisi e di cambi di marcia
repentini; la sua specialità è il cross dal fondo, rasoterra o in
alto, però si accentra volentieri in area e, senza essere egoista,
spesso si concede il lusso di segnare. I gol di Hamrin differiscono
l’uno dall’altro a riprova di un talento versatile, adattabile a
qualunque frangente della gara e al mutare delle tattiche di gioco.
Dirà che gli assomigliano Paolo Rossi e Filippo Inzaghi: certo è
molto meno opportunista sotto misura ma li supera entrambi per
qualità del repertorio. Il Paròn gli ha messo il soprannome di
Faina ma i tifosi prenderanno a chiamarlo Uccellino per la specialità
del fisico, e d’ora in avanti Uccellino sarà.
È un atleta leale, un
vero e proprio gentleman del campo che ignora i castighi della
ammonizione o, peggio, della espulsione. Rocco lo torchia in
allenamento, lui non se ne adonta e presto si abitua, se a distanza
di decenni confessa (nel bel volume di Pino Lazzaro, Nella fossa
dei leoni. Lo stadio Appiani di Padova nei ricordi di tanti ex
calciatori biancoscudati, Ediciclo editore 2002): «Fare il
calciatore credo sia il mestiere più bello del mondo, con le porte
poi che ti si aprono come fossero tende. Chi gioca a calcio deve
essere consapevole di questo perché basta poco, basta farsi male e
star fuori per essere subito dimenticato. Per me l’allenamento era
un lavoro: se c’era da piegarsi cinque volte io lo facevo sei
volte, se gli addominali erano quindici io arrivavo a venti». Chiude
in gran forma l’unica stagione a Padova però stavolta la
rimpatriata estiva significa Coppa Rimet. Al Mondiale di casa del
1958 Hamrin è titolare anche nella finalissima che si apre al quarto
minuto con un gol da fuori di Niels Liedholm, al passo d’addio.
Uccellino è il più giovane fra campioni celebrati come Liedholm
stesso o Gunnar Gren, detto il Professore, e un poeta dal sinistro
impossibile, Lennart Skoglund detto Nacka: tuttavia non c’è di
fronte il Genoa di Abbadie ma il Brasile di un fenomeno
diciassettenne, Pelé, guidato in panchina da una specie di filosofo
difensivista, Vicente Feola, che di Frossi e di Rocco rappresenta la
sintesi ideale. Insomma fanno cinque a due per i carioca e Hamrin sa
già che la Juventus l’ha appena spedito a Firenze a titolo
definitivo.
Trova una squadra neanche
male ma di medio cabotaggio dove sembra avviarsi al suo autunno di
atleta: è la Fiorentina di Beppe Chiappella, di Humberto Maschio,
Alberto Orlando e Giancarlo Morrone, in cui rimane nove anni e
continua imperterrito a giocare/segnare vincendo, dopo tutto, due
Coppe Italia, una Mitropa e nel ‘61, nella finale passata alla
storia come la battaglia di Ibrox Pak, la Coppa delle Coppe contro i
Rangers di Glasgow. Ha trentatré anni, ha preso casa a Firenze e
sembra avvicinarsi per lui lo stato di quiescenza quando riceve una
telefonata dal maestro.
Nel generale scetticismo,
come sempre sottovalutato, offeso, dileggiato, Paròn Rocco sta
allestendo un Milan che dicono raccogliticcio, di anziani spompati e
giubilati, ma presto si rivela una squadra di classe mondiale. Hamrin
è giusto l’ultimo tassello di un attacco che fa perno su Gianni
Rivera (con Lodetti addetto alla bonaccia) e due punte di grande
vigore, Angelo Sormani e il giovanissimo Piero Prati da Cinisello
Balsamo detto Pierino la peste. Il Milan stravince il campionato e,
non bastasse, arriva alla finale della Coppa delle Coppe, a Rotterdam
il 23 maggio 1968, contro l’Amburgo di Uwe Seeler. Si gioca nello
stadio del Feyenoord, la tifoseria locale (tradizionalmente incline
al neonazismo e all’antisemitismo) tifa Amburgo a braccia levate e
fischia i rossoneri senza sospettare che Uccellino sta per celebrare
la propria apoteosi. Qui gli basta ridurre di un terzo la quota
rifilata al Padova dieci anni prima e infatti, su suggerimento di
Rivera, va due volte in gol a passi fitti, zigzagando imprendibile,
prima al terzo poi al quindicesimo minuto del primo tempo, quando la
partita può dirsi conclusa: lo stadio tace costernato, cadono le
braccia levate a migliaia nell’ «Heil!» mentre Uccellino viene
cinguettando la sua gioia civilissima che si accende appena in un
sorriso chiaro.
Bisserà l’anno dopo
addirittura in Coppa dei Campioni a Madrid, la sera in cui Nereo
Rocco (coadiuvato da Gianni Rivera) impartisce a muso duro, e per 4 a
1, una memorabile lezione d’umiltà e pragmatismo all’Ajax di
Rinus Michels e di un ancora imberbe, non meno strafottente, Joahn
Cruijff. Ma per Kurt Hamrin, che immaginiamo gongolante nella misura
in cui può esserlo uno come lui, non è affatto finita. Ora ha
trentacinque anni, eppure si regala altre due stagioni al Napoli,
neppure così male, e un’altra, l’ultimissima, un ritorno
all’origine, tra i semidilettanti dell’IFK di Stoccolma, dove
gioca appena dieci volte ma segna cinque gol, cioè una media che
continua a essere tremenda. Se potesse, non fosse per i reumi e le
ginocchia torturate, lui continuerebbe oltre quel 1972. Successive e
modeste esperienze di allenatore come di osservatore non dicono nulla
né a lui né a noi. Per noi conta solamente l’ala destra
dell’Appiani, di Ibrox Park e di Rotterdam, il campione che prima
fu detto la Faina e poi, per tutti, fu semplicemente Uccellino.
Alias il manifesto, 3 marzo 2012
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