Orchidee |
Assordante
la strada intorno a me urlava.
Lunga,
magra, in gran lutto, dolore maestoso,
passa
una donna, che con la mano fastosa
alza
e fa dondolare il merletto e l'orlo;
agile
e nobile, con gamba statuaria.
Intanto
io bevevo, contratto come un pazzo,
nel
suo occhio, livido cielo che cova uragani,
la
dolcezza che affascina e il piacere che uccide.
Un
lampo … poi la notte! - Fuggitiva bellezza
il
cui sguardo mi ha fatto d'improvviso rinascere,
io
non ti vedrò più, da qui all'eternità?
Altrove,
via da qui! E tardi, forse mai!
Perché
io ignoro dove fuggi e tu non sai dove vado,
o
tu, che avrei amata, o tu, che lo sapevi!
La
rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue,
mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une
femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant,
balançant le feston et l’ourlet ;
Agile
et noble, avec sa jambe de statue.
Moi,
je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans
son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La
douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un
éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont
le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne
te verrai-je plus que dans l’éternité ?
Ailleurs,
bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car
j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O
toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !
Da
Les fleurs du mal
E. Manet - Donna che legge il giornale al Caffé |
Tra
la folla
Alta
e sottile, vestita in nero, la donna fatale baudelairiana attraversa
la fiumana anonima delle strade con il suo passo maestoso. Il suo
lutto è quello di chi ha perso ogni compagno degno di esserlo. La
bellezza, ritrattasi dall’immediatez-za della vita moderna, assume
un fascino fine a se stesso, che la trasporta nell’ambito delle
opere d’arte. La sua gamba statuaria fende la folla vociante, che
si ritrae al passaggio di quell’immagine divina e diabolica ad un
tempo. Nella sua pupilla, carica di un piacere misterioso e
distruttivo, s’affaccia una dolcezza indisponibile al singolo, ma
estesa ai passanti, con il peso trasparente di una benedizione.
L’immagine che sta trascorrendo ha la stessa mesta grandezza di un
sovrano in esilio, di un passato che ancora indugia in un presente
ormai estraneo. Il suo passo elegante e solenne è irraggiungibile,
ma il dominio che la sua comparsa instaura sull’uomo non è meno
terribile per il fatto di durare pochi istanti. La statua di carne
resuscita, con il fastoso gesto della mano che solleva la gonna, un
tempo trascorso, il ricordo di una possibilità ormai
irraggiungibile, come la sua persona. L’illuminazione subitanea
accesa dalla sua comparsa svela il buio confuso che circonda il suo
osservatore intento, privato dall’estasi di ogni pudore, a cogliere
nello sguardo della sconosciuta qualcosa che non potrà mai
appartenergli. Il riconoscimento istantaneo, quasi una muta
agnizione, operatasi tra i due, esclude ogni contatto. La legge dei
grandi affollamenti urbani vieta ed inibisce le soste ed i
riconoscimenti. Il moltiplicarsi dei volti sconosciuti abitua
l’attenzione a concentrarsi sugli aspetti meno familiari dei visi
che incrocia. Lo sguardo innamorato dell’osservatore rompe le
regole, svelando un’impossibile, ma non per questo meno
vertiginosa, prossimità con il suo mobile oggetto, cui è rivelata
la possibilità d’amore dell’occhio che lo fissa. L’immagine,
colpevolmente sottratta al regno urbano delle ombre senza volto, si
riimmerge, con il suo passo sicuro, nell’indistinta tenebra della
folla, trascinando nel pozzo del suo sguardo l’amore del poeta, che
non può che renderlo più fondo. L’incontro impossibile, lo
sfioramento di un corpo ridotto ad anima dall’impossibilità di
essere tale, diventa l’unica modalità possibile di rapporto con la
donna fatale. Ma forse il flaneur,
disperato e disperso, è più simile ad un provvisorio Orfeo, sospeso
tra la folla dei vivi da un’ambigua e luttuosa Euridice che,
accumulando su di sé tutti i fascini della morte, rende impossibile
la vita di chi resta al di là della linea d’ombra.
L’osservatore
rimane imprigionato tra la folla fluttuante, soggetta al sussulto
meccanico della storia. Egli non ha più il coraggio, né la forza di
seguire la donna fatale, di vivere il suo destino. Egli ormai può
solamente guardare il trascorrere del fato, il passo elegante
dell’umano fantasma, tra i passanti anonimi. Nell’impossibilità
di vivere direttamente, lo sguardo del flaneur
si trasforma in una bacchetta magica, che tramuta ogni cosa che
sfiora in ricordo. L’impraticabilità del futuro lo converte in
passato; la delusione della speranza la converte, come l’acqua in
vino, in nostalgia. Quanto non è stato vissuto confluisce,
confondendovisi, nell’immenso territorio di quanto non sarà mai
più vissuto, nel quale la disillusione individuale si traduce in
ricordo collettivo. In questo movimento la speranza ritorna alle sue
radici e, nel farlo, riconosce nel passato la propria sorgente e, nel
ricordo della specie, la luce riflessa nello specchio delle sue
aspirazioni. In Baudelaire si manifesta il conflitto di chi si trova
in bilico tra l’orrore della modernità, lo smarrimento
dell’identità, e dell’aureola, tra la folla indistinta delle
metropoli, ed una natura, la donna fatale, trasformata in mostro
sanguinario dalla sua espulsione dalla società. Tra la
massificazione e la perdizione, cui viene indotto chi indulge alla
passione nella realtà ottocentesca, il poeta sceglie un cammino
tortuoso e difficile. L’arte è lo scudo di specchio con cui egli
affronta la sua fascinosa Medusa. In essa, come nella luce
trascinante del fato, ogni cosa brilla per se stessa e comunica con
le altre senza smarrire la propria identità. Ad essa guarda
l’artista privo di guida, per non farsi prendere dal «piacere che
uccide», e, al medesimo tempo, per non dimenticarlo. L’opera
d’arte si rivela allora per un’impronta reificata del fato, un
suo fossile, in cui rimane imprigionata la tensione della passione,
tesa nel suo libero gioco, sul filo che separa ed unisce la vita e la
morte. Nella donna fatale Baudelaire riconosce ed onora la divinità
pagana, bestiale e divina, innocente e crudele. Gli abiti ondeggianti
intorno ai corpi femminili sono tenui travestimenti, sottili garze,
poste a velare lo splendore della carne, sulla quale i gioielli sono
le offerte votive di un popolo adorante, la pietrificazione fastosa
degli sguardi d’amore posatisi su di essi.
Lo
sguardo maschile, affondato in quello della bellezza luttuosa che
fende la folla, non potrà mai esprimersi compiutamente in un
dialogo, se mai parleranno, ancora muti, i corpi, nel loro disumano
linguaggio. L’arte può soltanto ritrarre questo meraviglioso
scacco, la sconfitta irrimediabile che, nel mondo moderno, anche la
più intensa esperienza nasconde, tra le pieghe profumate degli abiti
femminili.
Da
Giuseppe Scaraffia, La donna fatale,
Sellerio, 1987
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