Il primo libro pubblicato
nel 1950 da Leonardo Sciascia si intitola Favole della dittatura.
L'ho letto soltanto nel 1982, quando in occasione del Capodanno
l'editrice Sellerio lo ristampò in una veste assai elegante e lo
mandò agli amici. Le favole, brevi o brevissime, sono meno d'una
trentina; scritte con fermissimo e misurato nitore, lasciano appena
intravedere quelle che saranno poi le cifre di questo autore:
l'amarezza appassionata, l'arguzia mimica, il realismo venato di
malinconia e di umori metafisici. Vorrei citare per intero una delle
favole dal libretto di Sellerio: “Da anni il cane, quando pieno di
noia si acculava ai piedi del padrone, amava la fresca sensazione che
le scarpe gli davano: il padrone usando sempre una buona vernice alla
trementina. Così, lentamente, il pensiero dei calci ricevuti e da
ricevere, si fuse in quell'odore gradevole, acquistò una certa
voluttà. La pedata fu soltanto un odore. Ma un giorno il padrone usò
altra vernice, di un odore più torbido, come di petrolio e di sego.
Da allora le pedate riempirono il cane di disgusto”. Qui Sciascia
era ancora incline a intenzioni di raffinamento, quasi liriche.
"Il buon odore
delle pedate"
La favola del servilismo
ha un tempo, che si snoda nei rapporti tra sentimenti e fatti; e ha
uno spazio: si svolge in basso, ai piedi del padrone. Il tempo
indefinito e continuo della condizione cane-padrone è reso con
sapienza; al centro il pensiero dei calci ricevuti e da ricevere, e
al principio e alla fine, simmetrici, Da anni e Da allora. Ma
un' altra simmetria gioca il ruolo principale: il cane che era pieno
di noia quando finiva col gustare il buon odore delle pedate, si
riempie di disgusto quando l'odore cambia e diventa sgradevole. I
fatti determinano le reazioni morali; e quella noia provata dal cane
prima del disgusto non è forse un fatto più sottile, più
insinuante dell'odore delle pedate? Dietro il garbo agevole e spesso
divertito della scrittura, Sciascia risulta per fortuna un autore
tenacemente attaccato alla realtà delle contraddizioni, ai fatti
piccoli o grandi che costituiscono le verità percepite. Il piacere
di favoleggiare, la mania di elevare la cronaca a favola,
l'intelligenza della storia, e quella che ho chiamato più sopra
l'arguzia mimica (la capacità di assumere e affabulare con
riflessione i modi di essere degli altri), la naturalezza di scrivere
pensando al lettore come a un altro se stesso (Quando non mi
diverto, la pagina non viene); ecco, tutto questo, a cui si
aggiunga il pirandellismo di fondo, fa di Sciascia un narratore
deliziosamente pettegolo, irrequieto, mutevole, un interprete
smaliziato della nostra commedia sociale. Tra le molte pagine
dedicate a Pirandello, rileviamo un tratto autobiografico nel
volume-intervista La Sicilia come metafora (Mondadori); quando
lesse Il fu Mattia Pascal e qualche volume di novelle, ne ebbe
una travolgente rivelazione: che dentro il mondo pirandelliano egli
viveva, che il dramma pirandelliano dell'identità e della relatività
era il suo di ogni giorno. Chi sono come sono come mi vedono gli
altri chi sono e come sono gli altri come si può parlare con gli
altri se gli altri non sanno nulla di me e io nulla degli altri e
nulla anche di me stesso. Questo è l'aspetto arrovellato, da cui
vediamo nascere l'inclinazione, tutta siciliana, al mimo. Tradizione
orale, sulla quale Sciascia ha scritto osservazioni interessantissime
(La corda pazza, Einaudi), e tradizione letteraria,
essenzialmente moderna, se pensiamo a certe novelle di Pirandello e
ai Mimi siciliani di Francesco Lanza (ristampato da Sellerio
parecchi anni fa con prefazione di Italo Calvino). Scoprire il
rovescio doloroso, pietoso, dell'avvenimento faceto, o il grottesco
dentro la tragedia: il nocciolo dell'ispirazione pirandelliana,
secondo Sciascia, è per lo più la sollecitazione fantastica
provocata dal fatto realmente accaduto, è il personaggio reale che
s'impone quale mimo di se stesso. Questa è anche la poetica di
Sciascia, ma tenendo conto di una correzione: il modo di ragionare le
cose si aggrappa all' illuminismo, a Diderot, Courier, Manzoni,
insomma alla lucidità e al sarcasmo che si ficcano nel groviglio
delle pulsioni umane, dei caratteri, degli interessi, delle cecità
umane. Molti dei più celebrati romanzi di Sciascia sembrano quasi
belli e scritti per il cinema (Il giorno della civetta, Todo
modo); penso che di quelli il migliore sia A ciascuno il suo
(ristampato l' anno scorso dall'Adelphi). Del resto, Sciascia non
nascondeva tale vena: “Per il modo di raccontare, di fare il
racconto, credo di avere un debito più verso il cinema che verso la
letteratura”, dice a Marcelle Padovani (La Sicilia come
metafora).
Candido e Pangloss
Ma il suo piacevole
raccontare può avere ambizioni più complesse. Candido, del
1977, intreccia pressoché tutte le corde dello strumento: quella
pazza o grottesca, la malinconica, la corda filosofica, la pettegola
e maliziosa. Fedele al modello voltairiano, l'autore accumula in
Candido tutte le improbabilità semiserie e plausibili della
nostra commedia social-politica, con suicidi, omicidi, intrallazzi e
bieche carriere, famiglie rapaci, gerarchi di partito, e molti preti
spretati. Le vicende burattinesche scorrono vicinissime alla realtà
e vengono continuamente risucchiate da una voragine di mestizia e
delusione. Sciascia non se la sente di essere cattivo quanto
Voltaire. Questi non risparmia dal ridicolo il suo protagonista.
Candido, vissute tutte le sue disavventure per amore di Cunegonda,
finisce con lo sposarla di malavoglia, diventata com'è brutta e
sbattutissima, e con l'accontentarsi di coltivare l'orto. Quanto al
suo precettore Pangloss, la sua leibniziana fede che questo è il
migliore dei mondi possibili non vacilla mai neppure per un momento.
Candide e Pangloss sono i due poli della ridicolaggine, e in
conclusione appaiono derisoriamente salvi nel loro attivismo pratico
e teorico. Invece, i due protagonisti di Sciascia non sono tanto
ridicoli, caso mai ridicola è la Storia che ne strapazza la fede.
Candido, orfano e ricco possidente, si fa tranquillamente rubare la
terra dai parenti, dopo aver invano tentato di regalarla ai
contadini, e colmo di felicità, beato con la sua Francesca come in
un sogno, finisce col fare il meccanico in un' officina. Il suo
precettore don Antonio, inquieto arciprete che legge gli
enciclopedisti, Stendhal, Marx e i sacri testi psicoanalitici, una
volta spretato conquista una vera religiosità e si iscrive al
partito comunista. La complicità che Sciascia crea tra questi due
esseri di favola è cosa amabilissima, ed è il succo del gustoso
apologo. Amabilmente oppositivo è il ruolo che i due giocano l'uno
per l'altro. Se per Candido l'essere comunista è un fatto quasi di
natura, per don Antonio è una faccenda molto complicata, molto
sottile. Se per Candido è più che giusto farsi espellere dal
partito per restare comunista, don Antonio, per quanto indocile, non
se lo può permettere, dato che non vuole spretarsi due volte. Il
sistema di don Antonio consiste nel porre incessantemente l'una
contro l'altra, o accanto all'altra, le verità più contrastanti. E
Candido gli domanda: come può un uomo, o un partito, contenere tante
verità opposte? Un partito non può, gli risponde don Antonio, deve
trascegliere, ma la sinistra e l'uomo di sinistra, sì, deve viverle
tutte. Questa è la morale dell'apologo. Dopo questo libro, Sciascia
scrisse L'affaire Moro e si dedicò soprattutto a quelle
riscritture e rimuginazioni di cronache che aveva pur sempre
praticato (basta ricordare La morte dell'inquisitore del 1964
e I pugnalatori del 1976). Per loro natura tali scritti
possono risultare assai accattivanti, sospesi tra il saggio di
costume e il resoconto, per lo più, di un caso giudiziario o di una
vicenda enigmatica.
La canzonettista
dei bassifondi
Ricordo in particolare La
scomparsa di Majorana (Einaudi), 1912+1 (Adelphi) e le
Cronachette (Sellerio), tra le quali spicca la storia
bellissima e atroce della Povera Rosetta, angelica canzonettista dei
bassifondi ammazzata di botte dai questurini incarogniti (episodio
milanese del 1913). Detto questo un po' con l'ansia di far presto, e
con il rimpianto per la tormentata fine dello scrittore, devo
aggiungere qualche riga sulle mie personali preferenze. Sfogliando e
risfogliando tante opere e operine mi sono un po' soffermato su
quelle che vorrei rileggere: il diario Nero su nero e, in cima
a tutte, il mirabile Occhio di capra (entrambi pubblicati da
Einaudi), una raccolta dal vivo di espressioni siciliane, di
Racalmuto, il paese di Sciascia: parole, modi di dire, figure di
discorso. In Occhio di capra c'è tutto il meglio della
maniera appassionata, concreta, metafisica, poeticamente maliziosa
del narratore. Le parole di questo piccolo e vivente vocabolario sono
storie, sono favole, miti, misteri, rivelazioni, sono cose e stampi
di persone, mimi che i parlanti con arte istintiva recitano addosso
agli altri o a se stessi, e che Sciascia spiega raccontando, a futura
e perenne memoria.
“la Repubblica”, 21
novembre 1989
Nessun commento:
Posta un commento