Ebbe il destino di un
poète maudit: dopo una difficile infanzia trascorsa in parte
in collegio, e in parte nella nuova famiglia che il padre si era
fatto a Bologna, risposandosi dopo la morte della madre di Emanuel,
partì appena sedicenne per gli Stati Uniti, che dovevano diventare,
il luogo simbolico della sua vita e della sua letteratura. Passò
attraverso numerosi e umili mestieri, finché lo si ritrova nella
cerchia degli scrittori americani di punta in quegli anni. Ezra
Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon lo
accolsero come uno dei loro, con ammirazione e insieme sconcerto
dinanzi a questo difficile e imprendibile personaggio, e inclusero
subito testi suoi nelle loro celebri antologie e riviste. Carnevali
scriveva in inglese, la sua unica lingua era quella dell’esilio
imparata a orecchio, e portava così nella poesia americana un soffio
selvatico, di cui fu avvertita la novità. Nel 1922 fu colpito da
encefalite e dovette tornare in Italia. Trascorse in un ospedale
vicino a Bologna gli ultimi anni della sua vita, e lì ancora lo
raggiungevano le lettere dei suoi amici americani. Morì nel 1942 a
Bazzano, in provincia di Bologna.
“Il primo dio” è una
sorta di romanzo autobiografico, scritto in inglese, tradotto dalla
sorella Maria Pia Carnevali e pubblicato da Adelphi
nel 1978 di cui riprendo qui il primo capitolo. (S.L.L.)
Emanuel Carnevali |
Ricordo una stanza
bianca, con bianca luce di sole che filtra da alte finestre: in essa
mia madre e una vecchia signora, una vecchia signora tutta bianca,
stanno chine su di me. Potevo avere dai due ai tre anni. Tutto ciò a
Firenze, che avevo lasciata quando avevo meno di un anno, lasciata
per la campagna, in seguito a una tremenda broncopolmonite che mi
portò quasi alla tomba. Questo povero essere, dalla testa grossa e
dalle spalle strette, costò a sua madre molti guai e molti dolori.
Per tenermi al mondo mi davano latte d'asina, mi pare, e il latte
d'asina è assolutamente imbevibile. Non sono, però, molto pratico
in materia. Penso che tutti i guai che ho causato si sarebbero potuti
evitare, se fossi morto. E che liberazione sarebbe anche stata!
C'era un fossato, in cui
le rane cantavano, la notte, le loro rauche canzoni e c'era una
strada bianca dove, un giorno, caddi e sanguinai dal naso tanto
abbondantemente, che mi spaventai a morte. C'era la casa di un
contadino, con dei buchi al posto delle porte, dove viveva la mia
vecchia bambinaia. Poi c'era una villa grande e piacevole, che mia
madre e mia zia avevano preso in affitto. Il mio cuginetto se ne
andava per le vigne, a prendere cicale e a mangiarle: ali, membrane e
tutto. In questa grande villa, che era in campagna, mia madre emia
zia tenevano molti polli e galli e pulcini: il contadino che abitava
vicino a noi mise il veleno dove andavano a bere, e restammo senza
neanche un pollo. Una sera la domestica andò al pozzo a prendere
l'acqua e, poiché improvvisamente da dentro la casa la richiamarono,
mi diede da tenere la corda fino al suo ritorno. Capitò che il
secchio fosse più pesante di me stesso e io ero così ligio alla
consegna, che non mi sognai nemmeno di lasciare andare la fune. Ero
già con i piedi sollevati da terra, quando tornò la domestica e mi
salvò da una morte prematura.
Ero la bestiolina più
docile del mondo, e senza mai protestare lasciavo che mio cugino mi
picchiasse per ogni benché minimo motivo.
Una volta mia madre perse
una spilla e le venne il sospetto che l'avessi presa io (non rubata,
s'intende). Me la chiese. Improvvisamente mi alzai e con una vanga, o
con un altro arnese del genere, cominciai a scavare in un angolo del
giardino; dopo breve fatica trovai la spilla e la riportai a mia
madre. Lettore, se non erro, anche questo episodio era ‘Bianco'.
Ma più vivide di tutte
mi sono rimaste in mente le avventure sessuali. Dormivo con Maria,
una ragazzona di quindici anni, e talvolta lei prendeva la mia manina
e... Un'altra volta, correndo dietro a una bambina e avendola presa,
caddi su di lei e provai un momento di intenso piacere.
Vedo queste cose come se
mi fossero ancora davanti agli occhi. Ma l'avventura con Maria non
finì lì. Avevo quattro anni e già provavo piacere a quel
giochetto, tanto che divenni magro e mia madre, che doveva aver
subodorato qualcosa, finì col separarci.
Un'altra villa era triste
e plumbea, a parte il glicine che cadeva dal muro del giardino.
Contribuivano a renderla più pittoresca anche alcuni olivi che
crescevano lì presso. Era tenebrosa, quella villa, come se fosse
stata abitata da fantasmi, fantasmi di gente che aveva vissuto una
vita tenebrosa. Frattanto il denaro delle due sorelle era giunto
quasi alla fine, così andammo a vivere a Pistoia, una città piccola
e senza vita. Poi un bel giorno lasciammo la Toscana per il Piemonte,
precisamente per Biella, detta la Manchester italiana, terribilmente
industriosa e variamente industriale. Durante il viaggio vidi il
mare. Vidi il mare per la prima volta, per la prima volta sentii il
sapore della salsedine. Vidi il mare che è tanta parte dell'Italia.
Passammo sotto un numero infinito di gallerie, negli intervalli tra
l'una e l'altra, c'era il mare, il mare pulsante, il mare di Ulisse e
di Herman Melville, un mare scherzoso di tante piccole onde, e gli
spruzzi che ci sputava in faccia, tutto nello spettacolo del mare,
nel grande spettacolo del mare, volubile mare che cambia vestito
tante volte. Il mare di quel borghese di Conrad, e il mio proprio
mare, fabbricato dalla mia immaginazione e dalla sua presenza. E, per
ingenuo contrasto, alcuni pescatori sulla spiaggia, che stendevano o
riparavano le reti, miseri tormentatori di un tale immenso padre. Ma
era con una grande condiscendenza che il mare sorvegliava questi
miseri tormentatori, salvo a diventare tutto a un tratto serio e
terrificante.
Ci fermammo a dormire a
Vercelli e il giorno dopo prendemmo il treno per Biella.
Il
primo dio – Poesie scelte – Racconti e scritti critici, Adelphi,
1978
Nessun commento:
Posta un commento