Riprendo un ampio
stralcio da una interessante e divertente rievocazione anniversaria
uscita il mese scorso nel domenicale del “Sole” in occasione dei
duemila anni dall'ascesa al potere, giovanissimo, dell'imperatore
romano Elagabalo. (S.L.L.)
Il viso di Elagabalo nel busto dei Musei Capitolini (220 ca.) |
Duemila anni fa un
ragazzo arabo di quattordici anni divenne imperatore di Roma. Aveva
un nome non memorabile: Marco Aurelio Antonino, ed è passato alla
storia con il suo soprannome: Elagabalo (El-Gabal significa Dio della
Montagna, una divinità semitica del Sole alla quale era
particolarmente devoto). La colpa era stata della mamma e della
nonna: due volitive e nobili siriane, imparentate con la dinastia dei
Severi, che manu militari erano riuscite a tramutare il fanciullo in
imperatore e a comandare per interposta persona (avevano messo in
giro la voce che era figlio illegittimo di Caracalla per dargli
almeno un’aura di legittimità dinastica). Un ritratto ai Musei
Capitolini di Roma mostra la sua faccia: un adolescente con gli
occhioni e l’espressione un po’ afflitta, i capelli mossi, le
basette e la peluria che spunta, gote piene e labbra abbondanti (era
negli anni dell’"innocentissima aetas" secondo Plinio il
Vecchio o dell’"imbecilla aetas" secondo Sant’Agostino).
Fu il venticinquesimo
cesare (per 1395 giorni, tra il 16 maggio del 218 e l’11 marzo del
222 d.C.) e fu un campione del gender. Non gli piacevano gli
abiti che portavano i greci e i romani e non gli piacevano neanche
gli abiti da uomo. Quando non si travestiva da Venere, si
drappeggiava di seta scarlatta trapuntata d’oro, carico di collane
e bracciali, ispirandosi alla moda dei preti fenici e agli sfarzosi
persiani (per questo era sbeffeggiato come l’“Assiro” o il
“Sardanapalo”). Si sposò con cinque aristocratiche romane per
eugenetica (desiderava «bambini simili a dei» ma non si riprodusse)
e impalmò due maschi orientali per passione: uno schiavo di cui si
considerava «moglie e regina», e poi un atleta superdotato. Come
una Messalina rediviva si prostituiva al bordello, truccato, depilato
e con la parrucca. Si era fatto circoncidere per motivi religiosi ma
avrebbe preferito castrarsi ed era disposto a dare la metà
dell’impero a chi trovasse il modo di trapiantargli i genitali
femminili.
Fu attento alla
rappresentanza di genere: la madre e la nonna partecipavano alle
adunanze del senato negli scranni dei consoli (un tabù punito con la
morte che solo Agrippina madre di Nerone aveva violato, nascondendosi
dietro una tenda) e istituì anche un senato di donne al posto di
un’antica congrega di virtuose matrone. Era un protettore di
prostitute: riscattava la schiave per liberarle, costruiva per loro
case pubbliche, le riempiva di denaro e di provviste di grano. I
militari e i senatori di Roma erano abituati da secoli agli eccessi
assortiti dei nobili e agli imperatori più impudenti (quasi mai
potere e ricchezza erano esibiti con l’ascesi). Nelle ricezioni,
Elagabalo era anche più stravagante di Nerone: piogge di petali,
piscine profumate, cuscini d’oro, pentole d’argento, vini con
aromi esotici e pietanze che neanche Trimalcione aveva immaginato:
talloni di cammelli, lingue di usignoli, cervelli di fenicotteri e
barbe di triglia (la carne suina non era permessa dalla sua
religione).
Ai custodi della res
publica quell’imperatore andava poco a genio. I soldati erano
scandalizzati che «un principe accogliesse la libidine in tutti i
suoi buchi». Ai senatori non piaceva di essere considerati «servi
in toga» ed essere esclusi dalle cariche più importanti, che
assegnava - secondo loro - ai dissoluti compagni. Ma soprattutto non
sopportavano il culto di un solo dio e gli esotici rituali che –
per forza o per amore - cercava di trapiantare a Roma. In una
terrazza del Palatino davanti al Colosseo fece costruire
l’Elagabalium, un tempio dove contenere la religione e i simboli
ancestrali di Roma insieme a quella di Giudei e Cristiani ma decise
che non c’era altro dio all’infuori di Elagabalo. Il nome fu
latinizzato in Sol Invictus, adorato sotto forma di un bolide
astrale appositamente traslocato dalla sua città natale: Emesa in
Siria, moderna Homs. Nessuno capiva quella nuova spiritualità, il
monoteismo e le stranezze delle liturgie, ed era bizzarro vedere
l’imperatore e sommo sacerdote che danzava a suon di musica intorno
all’altare con «gemiti e contorsioni», sacrificando tori e pecore
e ogni tanto qualche bambino.
Quando è troppo è
troppo e le guardie militari cominciarono a dare segni di
insofferenza. La nonna non si dette per vinta, aveva anche un’altra
figliola e un altro nipote teen-ager da manovrare: il dimesso e
rispettoso Severo detto Alessandro (Magno); previde il peggio e fece
affiliare Severo Alessandro a Elagabalo (16 anni il padre e poco meno
il figlio-cugino ma tra i due non correva buon sangue). L’adozione
non bastò a calmare gli animi ed Elagabalo fece una brutta fine. I
pretoriani si ammutinarono, decisero di dargli la caccia e di farla
finita. L’imperatore si nascose in un orinatoio, fu scovato,
decapitato e trascinato in giro per il Circo Massimo; la fogna dove
il cadavere era stato buttato era stroppo stretta e fu scaraventato
nel Tevere. La mamma ebbe lo stesso destino e i suoi amici, per
contrappasso, furono infilzati con il gladio dagli orifizi. La sua
memoria fu maledetta per sempre e l’asteroide venerato come Sol
Invictus Elagabalus fu rispedito in Siria.
[...]
“Il Sole 24 ore
Domenica”, 11 luglio 2018
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