1.8.18

Natura e storia: il “biologico” e il “sociale” (Sebastiano Timpanaro)

Sebastiano Timpanaro

La polemica storicistica contro l’«uomo in generale», giustissima finché nega che siano proprie dell’umanità in generale certe caratteristiche storico-sociali come la proprietà privata o la divisione in classi, diventa errata quando trascura il fatto che l’uomo come essere biologico, dotato di una certa (non illimitata) adattabilità all’ambiente esterno, dotato di certi impulsi all’attività e al raggiungimento della felicità, soggetto a vecchiezza e a morte, non è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall’uomo storico-sociale, ma esiste tuttora in ciascuno di noi e con tutta probabilità esisterà anche in futuro. Cambiano, certo, in conseguenza dello sviluppo della società, i modi di sentire il dolore, il piacere e le altre reazioni fisio-psichiche elementari; non c’è probabilmente nell’uomo odierno più nulla di «puramente naturale», che non sia stato arricchito e riplasmato dall’ambiente sociale e culturale. Ma tuttavia quegli aspetti generali della «condizione umana» rimangono, e le caratteristiche specifiche introdottevi dalle varie forme di vita associata non sono state tali da sovvertirli completamente. Sostenere che, siccome il «biologico» ci si presenta sempre mediato dal «sociale», il «biologico» è nulla e il «sociale» è tutto, sarebbe, ancora una volta, un sofisma idealistico. Se lo accettiamo, come ci difenderemo da chi, a sua volta, sosterrà che, siccome ogni realtà (compresa quella economico-sociale) è conoscibile solo attraverso il linguaggio (o attraverso il pensiero pensante), il linguaggio (o il pensiero pensante) è l’unica realtà e tutto il resto è astrazione?
Abbiamo parlato dell’importanza che il livello biologico ha nella determinazione dei caratteri della condizione umana in generale. Ma bisogna aggiungere che, se il livello biologico ha un’importanza praticamente nulla riguardo alla determinazione di caratteri comuni a grossi gruppi umani (non esiste, per esempio, nessuna correlazione tra l’appartenenza a una razza e il possesso di certe doti intellettuali o morali), ha invece, di nuovo, un peso cospicuo nella determinazione dei caratteri individuali. L’umanità non è fatta di individui tutti uguali per costituzione fisio-psichica, differenziantisi solo per l’ambiente sociale in cui vengono a trovarsi. Accanto alle differenze di formazione sociale-culturale (differenze che, a loro volta, dovranno pur tradursi in determinati «caratteri acquisiti» del cervello e del sistema nervoso) entrano in giuoco differenze «costituzionali» dovute a molteplici altri fattori biologici. Il grottesco semplicismo e le estrapolazioni razzistiche della scuola lombrosiana e di altre tendenze affini possono certo indurci ad accantonare i tentativi di interpretazione «biologica» di questo o quel personaggio storico, in attesa che lo studio dei rapporti tra fisiologia e psicologia e sviluppo intellettuale sia molto più progredito di ora. È evidentemente più scientifico rinunciare, per mancanza di dati attendibili, ad una spiegazione scientifica, che abbandonarsi alla fantascienza. Non dimentichiamo però che si tratta di un accantonamento non definitivo, poiché ogni negazione di principio dell’esistenza di quei rapporti significherebbe un ritorno al concetto di « anima » con tutte le sue assurdità. Né bisogna dimenticare che, al limite, la natura influisce sulla storia umana attraverso la morte dei vari attori di tale storia. Non ci si converte al culto degli «eroi», non si abbandona il marxismo dicendo che la morte di Lenin, dovuta a malattia, ha avuto un notevole (anche se non preminente) influsso su certe degenerazioni del Partito bolscevico e della Russia rivoluzionaria; e questo, in misura minore, è vero anche per ciascuno dei personaggi minori e minimi del dramma umano. La storia umana è continuamente intersecata da accidenti «naturali» (che, naturalmente, non sono soltanto le morti). Lo so: a questa osservazione si può rispondere che il protagonista della storia è lo Spirito assoluto (o la Specie umana, o le classi) e che gli individui empirici non hanno vera realtà. Ma è anche risaputo che questa concezione rende trascendente l’Io assoluto rispetto ai soggetti empirici, cioè restaura un dualismo platonico tra apparenza sensibile e vera realtà proprio nell'atto in cui proclama con grande enfasi il monismo.

Da Considerazioni sul materialismo in “Quaderni piacentini” n.28, settembre 1966

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