Sebastiano Timpanaro |
La polemica storicistica
contro l’«uomo in generale», giustissima finché nega che siano
proprie dell’umanità in generale certe caratteristiche
storico-sociali come la proprietà privata o la divisione in classi,
diventa errata quando trascura il fatto che l’uomo come essere
biologico, dotato di una certa (non illimitata) adattabilità
all’ambiente esterno, dotato di certi impulsi all’attività e al
raggiungimento della felicità, soggetto a vecchiezza e a morte, non
è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato
preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall’uomo
storico-sociale, ma esiste tuttora in ciascuno di noi e con tutta
probabilità esisterà anche in futuro. Cambiano, certo, in
conseguenza dello sviluppo della società, i modi di sentire il
dolore, il piacere e le altre reazioni fisio-psichiche elementari;
non c’è probabilmente nell’uomo odierno più nulla di «puramente
naturale», che non sia stato arricchito e riplasmato dall’ambiente
sociale e culturale. Ma tuttavia quegli aspetti generali della
«condizione umana» rimangono, e le caratteristiche specifiche
introdottevi dalle varie forme di vita associata non sono state tali
da sovvertirli completamente. Sostenere che, siccome il «biologico»
ci si presenta sempre mediato dal «sociale», il «biologico» è
nulla e il «sociale» è tutto, sarebbe, ancora una volta, un
sofisma idealistico. Se lo accettiamo, come ci difenderemo da chi, a
sua volta, sosterrà che, siccome ogni realtà (compresa quella
economico-sociale) è conoscibile solo attraverso il linguaggio (o
attraverso il pensiero pensante), il linguaggio (o il pensiero
pensante) è l’unica realtà e tutto il resto è astrazione?
Abbiamo parlato
dell’importanza che il livello biologico ha nella determinazione
dei caratteri della condizione umana in generale. Ma bisogna
aggiungere che, se il livello biologico ha un’importanza
praticamente nulla riguardo alla determinazione di caratteri comuni a
grossi gruppi umani (non esiste, per esempio, nessuna correlazione
tra l’appartenenza a una razza e il possesso di certe doti
intellettuali o morali), ha invece, di nuovo, un peso cospicuo nella
determinazione dei caratteri individuali. L’umanità non è fatta
di individui tutti uguali per costituzione fisio-psichica,
differenziantisi solo per l’ambiente sociale in cui vengono a
trovarsi. Accanto alle differenze di formazione sociale-culturale
(differenze che, a loro volta, dovranno pur tradursi in determinati
«caratteri acquisiti» del cervello e del sistema nervoso) entrano
in giuoco differenze «costituzionali» dovute a molteplici altri
fattori biologici. Il grottesco semplicismo e le estrapolazioni
razzistiche della scuola lombrosiana e di altre tendenze affini
possono certo indurci ad accantonare i tentativi di interpretazione
«biologica» di questo o quel personaggio storico, in attesa che lo
studio dei rapporti tra fisiologia e psicologia e sviluppo
intellettuale sia molto più progredito di ora. È evidentemente più
scientifico rinunciare, per mancanza di dati attendibili, ad una
spiegazione scientifica, che abbandonarsi alla fantascienza. Non
dimentichiamo però che si tratta di un accantonamento non
definitivo, poiché ogni negazione di principio dell’esistenza di
quei rapporti significherebbe un ritorno al concetto di « anima »
con tutte le sue assurdità. Né bisogna dimenticare che, al limite,
la natura influisce sulla storia umana attraverso la morte dei vari
attori di tale storia. Non ci si converte al culto degli «eroi»,
non si abbandona il marxismo dicendo che la morte di Lenin, dovuta a
malattia, ha avuto un notevole (anche se non preminente) influsso su
certe degenerazioni del Partito bolscevico e della Russia
rivoluzionaria; e questo, in misura minore, è vero anche per
ciascuno dei personaggi minori e minimi del dramma umano. La storia
umana è continuamente intersecata da accidenti «naturali» (che,
naturalmente, non sono soltanto le morti). Lo so: a questa
osservazione si può rispondere che il protagonista della storia è
lo Spirito assoluto (o la Specie umana, o le classi) e che gli
individui empirici non hanno vera realtà. Ma è anche risaputo che
questa concezione rende trascendente l’Io assoluto rispetto ai
soggetti empirici, cioè restaura un dualismo platonico tra apparenza
sensibile e vera realtà proprio nell'atto in cui proclama con grande
enfasi il monismo.
Da Considerazioni sul
materialismo in “Quaderni
piacentini” n.28, settembre 1966
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