Thadeusz Kantor in "Crepino gli artisti" (Milano 1985) |
Uno spettacolo di
Thadeusz Kantor è senza dubbio una sorpresa, e non lo è. È una
sorpresa nel senso che ogni volta il regista ci pone di fronte
violentemente al "fatto" della sua evidente genialità
espressiva, alla qualità altissima della sua ricerca, alla chiarezza
esplosiva del risultato. Ma non lo è più, una sorpresa, nel senso
che sempre più chiaramente, ogni spettacolo riproduce esplicitamente
se stesso. E se è vero che, alla resa dei conti, ogni poeta scrive
sempre la stessa poesia, ogni romanziere lo stesso romanzo, ogni
pittore esegue lo stesso quadro, è certo, appunto, che Kantor fa
ostinatamente lo stesso spettacolo: fa lo spettacolo del proprio
mondo poetico ed espressivo, rende spettacolare, forse il proprio
inconscio. E non traveste le sue intenzioni. Insomma, si recita
ancora, questa sera, La classe morta: sono quei fantasmi,
quegli zombies, quei cadaveri putrefatti, quei reperti di sepolcro, a
venire in scena, è quella cripta polverosa abitata da scheletri come
un cimitero dei cappuccini, il luogo della azione.
Lo spettacolo si chiama
con forte senso invettivo, Crepino gli artisti. E certo
l'esperienza creativa c'entra assai. C' entra come ripensamento
furibondo del ruolo dell'artista nella società polacca di secoli
recenti, e forse di secoli più antichi. C'entra nel senso che si
racchiudono qui, nelle immagini canoniche di una sorta di furibonda
via crucis ghignante, tutti i sentimenti "neri" di una
visione antica, agghiacciante ed evocativa, della realtà. Nella idea
plastica di Kantor c'è una linea gotica, tedesca, che dalla
Melancolia di Dürer, porta diretta agli Ecce Homo di Grosz e
di Dix, una linea espressionista che cavalca la morte, che evoca
l'apocalisse e lo sterminio di inevitabili guerre mondiali, la
sicurezza disperata che all'Ovest non c'è nulla di nuovo, e che
l'uomo ha la vita ossessionata dal sentimento della tortura, dal
senso dell'amore mercenario, dal disfacimento dei corpi in una
minacciosa valle di Giosafatte sempre presente negli incubi.
Accettando di realizzare questo spettacolo per il Centro di Ricerche
per il Teatro di Milano, ma anche per l'istituto di Arte moderna di
Norimberga, Kantor si è aggrappato proprio, mi pare alla idea
figurativo-evocativa di una Norimberga come città di macchine
tragiche, di vergini e di processi. Egli ha collocato il senso di
Norimberga, evidentemente, in una cultura di triste giorno dell'ira,
in una atrocità del passato non più sofferibile, e che non si può
più ulteriormente esorcizzare.
La citazione, e la
evocazione in scena, del personaggio simbolico di Veit Voss venuto
diretto dal suo Quattrocento a significare il rintocco funebre
dell'autore, non lascia equivoci così come non lascia equivoci il
sottotitolo macabro di "rivista" che reca lo spettacolo.
Rivista, forse, nel senso che dava Wedekind al suo circo
circolare: in questa pedana di sabbia, ruotano cadaveri che non sono
nemmeno felliniani. Fellini ha nella sua vena macabra sempre un
sentimento ovvio, naturale, di amore mediterraneo. Il circo di Kantor
è piuttosto quello di Bergman, e questo mi sembra, alla fine, il
riferimento culturale più vero e più alto. Bergman in bianco e
nero, perché l incubo deve essere così poco colorato, perché l'
incubo deve far parte di quella cultura protestante che dichiara la
sua sofferenza e il senso del suo martirio, ed anche di una cultura
ebraica che trova le sue radici assai lontano, al centro dell'Europa
che si dissolve, e vive in una ondata di morte nel ghetto di
Varsavia, nelle tombe di Cracovia.
Il cronista non forza
nella interpretazione la realtà di questo spettacolo bello e
doloroso, triste e magnificamente recitato. Lo spettacolo non fa
mistero dell'essere evocato, ambientato in un cimitero: dove il
"proprietario del deposito" è come il domatore che estrae
dalla gabbia le belve stanche della classe morta. Riflettiamo un
momento su questa locuzione del foglietto che ci accompagna: si
tratta proprio di un "proprietario". Forse è un lapsus, ma
forse no: siamo tutti di proprietà privata di "qualcuno",
addestrati a saltare il cerchio come i ciuchini di Pinocchio. Il
proprietario evoca ad uno ad uno i personaggi della esistenza di
Kantor, il suo "doppio", l'autore che guarda se stesso, le
sue donne-uomo, il suo io bambino, dominato dallo spettro dei soldati
e delle croci. Come in Wielopole Wielopole la croce domina la
scena, come fosse uno strumento simbolico di tortura enfatizzata che
dà corpo ad uno degli "sketchs" violenti. E, subito, i
personaggi della evocazione infantile si mescolano ai personaggi
dell'incubo: irrompe il mondo circense dei "comici". Eccolo
tutto intero, dunque, il mondo e Bergman, quello del Settimo
Sigillo e di tutti i suoi primi films, il mondo del Posto
delle fragole. Sono qui, quei professori divorati dai propri
traumi, son qui gli alter ego affascinanti, che non esitano ad
esporsi, a giocare la propria esistenza onirica in un diluvio di
autobiografismo. È qui la patina di quei film, è qui Kantor. E
infatti mi sembra che il dato fondamentale di questo spettacolo non
sia il suo senso apparente, che può esser anche considerato vecchio
e addirittura banale. È in quella presenza di Kantor, sempre in
scena come al solito, a far la parte di se stesso, a mimare in ogni
gesto la nervosa nevrosi del regista, ad attrarre la attenzione
sull'unico dato certo, che ci viene proposto con alterigia e
privilegio carismatico: lo spettacolo. Kantor recita la recitazione,
mima la mimica, Kantor sottolinea gli effetti musicali del suo tango
ossessivo con gesti che sono esplicitamente dei tic. Qui il discorso,
se mai fosse stato misterioso, e criptico come la cripta desidera,
davvero non lo è più: è un discorso esplicito diretto, talmente
esplicito che non ci permette di giudicarlo, o di tentare di
collocarlo ancora in una cultura. È il discorso dell'artista, che
accetta di essere mandato metaforicamente a crepare, ma lo fa con
meraviglioso orgoglio, con la certezza di una sua affascinante
diversità. al Teatro dell'Arte di Milano
“la Repubblica”, 16
giugno 1985
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