Ettore Janni (1875-1956). Diresse il "Corriere" tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943 |
È
notevole il fatto che anche in Italia la filologia e la storiografia
si siano orientate di recente al censimento e allo studio sistematico
della produzione giornalistica salvando dalla vasta necropoli delle
emeroteche alcune fisionomie di giornalisti che invece meritano il
nome di scrittori tout court e deducendo da una produzione giocoforza
militante, cioè scandita alla giornata, linee di storia della
cultura, dinamiche della ricezione e, più in generale, formazioni
del senso comune: è il caso della grande intrapresa di Franco
Contorbia (curatore dei quattro «Meridiani» Mondadori, 2007-09,
intitolati Giornalismo italiano 1860-2001) come è il caso, in
un ambito specifico, del manuale fondativo di Gian Carlo Ferretti e
Stefano Guerriero, Storia dell’informazione letteraria in
Italia. Dalla Terza pagina a Internet 1925-2009 (Feltrinelli
2010). Si aggiunge ora, fittissimo di pagine e di apparati
bibliografici, introdotto da Paolo Di Stefano e curato con perizia da
Bruno Pischedda, La critica letteraria e il Corriere della Sera
(1876-1945) (Fondazione Corriere della Sera, pp. CIV+1.694, €
60.00), che annuncia un tomo successivo, traguardato al ’92, a cura
di Mauro Bersani. Il periodizzamento duplica la vicenda interna del
giornale sui passaggi di fase della storia italiana e si divide,
grosso modo, in una triplice sequenza: la prima segnata dalla belle
époque, tra la ricezione della eredità risorgimentale e il
progressivo imporsi della cultura positivista; la seconda, dominata
in età giolittiana dal carisma di Luigi Albertini, dove confliggono
l’identità liberale e più o meno torbide inquietudini
spiritualiste e nazionaliste; la terza, infine, ipotecata dal regime
fascista e sviluppatasi nel segno della ambivalenza e di una
sostanziale subalternità, con relativi e sempre reversibili margini
di autonomia, tra le direzioni di Ojetti e Borelli e quella di
Ermanno Amicucci che, fra l’ottobre del ’43 e l’aprile del ’45,
mutò il Corriere in uno dei più svergognati fogli di Salò. Ognuno
preceduto da un puntuale medaglione biobibliografico, sono una
trentina i critici letterari, segnatamente i recensori, antologizzati
sulla base di un criterio che privilegia, quanto ai libri trattati,
non solo e ovviamente la letteratura italiana ma anche la letteratura
francese e più in generale la produzione neolatina così come la
anglosassone (soprattutto americana, dopo la prima guerra mondiale) e
la slava, non escluse talune incursioni nell’esotico, quali per
esempio i ‘telefoni bianchi’ della letteratura ungherese: anche
se espressamente motivata, rimane però discutibile l’esclusione
dei critici antichisti, specie per quanto concerne Giorgio Pasquali
(ma al riguardo si veda Margherita Marvulli, Pasquali nel
‘Corriere della Sera’, Edizioni di Pagina, 2006) che fu tanto
un insigne filologo-scrittore quanto un intellettuale asservito e,
nella fattispecie, un diretto promotore della paccottiglia che
adornava il Duce redivivo sui colli fatali di Roma, o cosiddetti. La
dominante di lungo periodo, secondo Pischedda, segna volta a volta
«un punto di sintesi tra esperienze autoctone e Weltliteratur», la
cui dialettica di autonomia ed eteronomia (o, più semplicemente, di
libertà intellettuale e vincoli di natura politico-sociale) si
specchia nel medesimo costituirsi e via via stabilizzarsi della Terza
pagina, il cui «carattere di pagina/laboratorio, – nota Di Stefano
– spazio in continua metamorfosi (per impostazione, tematiche e
firme), contraddice l’idea vulgata di un luogo dai confini fissati
presto e una volta per tutte sul piano tematico ed espressivo». È
infatti col ventennio fascista che la Terza pagina diviene tale e
perciò sinonimo di spazio controllato e recintato, sia nel senso di
una più marcata specializzazione delle competenze o all’occorrenza
della segnaletica propagandistica (lì Piovene firmò l’osanna del
Contra judaeos di Telesio Interlandi e, ben recuperata da
Pischedda, la fiammante recensione delle Bagatelles céliniane, l’8
giugno del ’38), sia nel senso della inconsistenza, evasività e
persino fatuità di una letteratura che da tempo si è dimessa da se
stessa: se non stupiscono il lettore di oggi le pagine ricreative e
gastronomiche, datatissime, di Antonio Baldini, tuttavia fa un certo
effetto (un effetto di filisteismo, di procurata cecità e talora di
smaccata ipocrisia) rileggere nel loro contesto quelle tanto
finemente elaborate e ammanierate di colui che per decenni tenne
cattedra al Corriere, Emilio Cecchi, le pagine di uno che il 23
giugno 1936, nei giorni dell’Impero, non ha il coraggio di
infierire apertamente sulle spoglie di Massimo Gorkij ma trova il
modo di sottovalutarlo firmando un necrologio pelosissimo, che come
al solito dice e non dice. Peraltro la viltà di simili calligrafi è
da tempo storicizzata come, viceversa, l’atteggiamento nicodemico
di quanti, pur accettando di scrivere su un giornale ormai
fascistizzato, vi mantennero un profilo dignitoso e relativamente
autonomo: è il caso di Giuseppe Antonio Borgese, di un critico
finissimo quale Attilio Momigliano, poi epurato nel ’38 in quanto
giudeo vitando, e soprattutto di Pietro Pancrazi (Cortona
1893-Firenze 1952) laddove la limpidezza dello stile e quella delle
scelte recensorie sono testimoni di una natura schiettamente
liberale. Le sorprese della antologia risalgono semmai al periodo che
va dalla fondazione del giornale all’era Albertini, quando la Terza
pagina è ancora un richiamo dalla prima o con essa convive. Qui
Pischedda recupera diverse firme di sorprendente qualità, non tanto
quelle risapute di Capuana e De Roberto (latori di un verbo
positivista e verista che fu a lungo maggioritario nei gusti del
pubblico), quanto, per esempio, dei dimenticati Vittorio Pica e
Domenico Oliva, che traslarono in Italia nomi e libri del
decadentismo e del simbolismo francese, oppure di Ettore Janni (Vasto
1875-Milano 1956) il cui profilo è davvero paradigmatico:
autodidatta di umili origini, dannunziano della prima ora e a vita
(se del grande conterraneo proprio lui voltò in italiano La
Pisanella e Il martirio di San Sebastiano), pupillo di
Albertini con cui nel 1925 lascia il giornale che lo ha assunto nel
1903 per ritornarvi come direttore fra il 25 luglio e l’8 settembre
’43. Ebbene, basterebbe leggere il suo necrologio di Giulio Verne
(«Il vecchio mago è morto», è così che comincia), l’apologia
di Federigo Tozzi in data 6 marzo 1920 o la recensione infastidita e
insieme informatissima al secondo volume della Recherche (dove
pure è detto lapidariamente: «Marcello Proust è un romanziere
noioso») per appurare la qualità di un critico della domenica dove
non c’è mai ombra di dilettantismo. Eppure Janni, come poi per
altra via Giulio Caprin, non era quello che si dice uno specialista
ma, appunto, un intellettuale di marcati interessi sociali e
politici. La magnanimità e l’umanesimo a tutto tondo di cui
testimoniavano uno Janni o un Caprin sono andati fatalmente perduti
per il subentrare di più rigide ripartizioni accademiche.
Chi
potrebbe oggi immaginare Angelo Panebianco, Antonio Polito, Piero
Ostellino o insomma uno del Tea Party interno al Corriere come
firmatario di una recensione letteraria? Non sarebbe pensabile e,
forse, nemmeno augurabile.
“Alias
domenica – il manifesto”, 4 marzo 2012
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