13.8.18

Antologia 1876-1945. Terza pagina del Corriere, autonomia e (più spesso) eteronomia della cultura (Massimo Raffaeli)

Ettore Janni (1875-1956). Diresse il "Corriere" tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943

È notevole il fatto che anche in Italia la filologia e la storiografia si siano orientate di recente al censimento e allo studio sistematico della produzione giornalistica salvando dalla vasta necropoli delle emeroteche alcune fisionomie di giornalisti che invece meritano il nome di scrittori tout court e deducendo da una produzione giocoforza militante, cioè scandita alla giornata, linee di storia della cultura, dinamiche della ricezione e, più in generale, formazioni del senso comune: è il caso della grande intrapresa di Franco Contorbia (curatore dei quattro «Meridiani» Mondadori, 2007-09, intitolati Giornalismo italiano 1860-2001) come è il caso, in un ambito specifico, del manuale fondativo di Gian Carlo Ferretti e Stefano Guerriero, Storia dell’informazione letteraria in Italia. Dalla Terza pagina a Internet 1925-2009 (Feltrinelli 2010). Si aggiunge ora, fittissimo di pagine e di apparati bibliografici, introdotto da Paolo Di Stefano e curato con perizia da Bruno Pischedda, La critica letteraria e il Corriere della Sera (1876-1945) (Fondazione Corriere della Sera, pp. CIV+1.694, € 60.00), che annuncia un tomo successivo, traguardato al ’92, a cura di Mauro Bersani. Il periodizzamento duplica la vicenda interna del giornale sui passaggi di fase della storia italiana e si divide, grosso modo, in una triplice sequenza: la prima segnata dalla belle époque, tra la ricezione della eredità risorgimentale e il progressivo imporsi della cultura positivista; la seconda, dominata in età giolittiana dal carisma di Luigi Albertini, dove confliggono l’identità liberale e più o meno torbide inquietudini spiritualiste e nazionaliste; la terza, infine, ipotecata dal regime fascista e sviluppatasi nel segno della ambivalenza e di una sostanziale subalternità, con relativi e sempre reversibili margini di autonomia, tra le direzioni di Ojetti e Borelli e quella di Ermanno Amicucci che, fra l’ottobre del ’43 e l’aprile del ’45, mutò il Corriere in uno dei più svergognati fogli di Salò. Ognuno preceduto da un puntuale medaglione biobibliografico, sono una trentina i critici letterari, segnatamente i recensori, antologizzati sulla base di un criterio che privilegia, quanto ai libri trattati, non solo e ovviamente la letteratura italiana ma anche la letteratura francese e più in generale la produzione neolatina così come la anglosassone (soprattutto americana, dopo la prima guerra mondiale) e la slava, non escluse talune incursioni nell’esotico, quali per esempio i ‘telefoni bianchi’ della letteratura ungherese: anche se espressamente motivata, rimane però discutibile l’esclusione dei critici antichisti, specie per quanto concerne Giorgio Pasquali (ma al riguardo si veda Margherita Marvulli, Pasquali nel ‘Corriere della Sera’, Edizioni di Pagina, 2006) che fu tanto un insigne filologo-scrittore quanto un intellettuale asservito e, nella fattispecie, un diretto promotore della paccottiglia che adornava il Duce redivivo sui colli fatali di Roma, o cosiddetti. La dominante di lungo periodo, secondo Pischedda, segna volta a volta «un punto di sintesi tra esperienze autoctone e Weltliteratur», la cui dialettica di autonomia ed eteronomia (o, più semplicemente, di libertà intellettuale e vincoli di natura politico-sociale) si specchia nel medesimo costituirsi e via via stabilizzarsi della Terza pagina, il cui «carattere di pagina/laboratorio, – nota Di Stefano – spazio in continua metamorfosi (per impostazione, tematiche e firme), contraddice l’idea vulgata di un luogo dai confini fissati presto e una volta per tutte sul piano tematico ed espressivo». È infatti col ventennio fascista che la Terza pagina diviene tale e perciò sinonimo di spazio controllato e recintato, sia nel senso di una più marcata specializzazione delle competenze o all’occorrenza della segnaletica propagandistica (lì Piovene firmò l’osanna del Contra judaeos di Telesio Interlandi e, ben recuperata da Pischedda, la fiammante recensione delle Bagatelles céliniane, l’8 giugno del ’38), sia nel senso della inconsistenza, evasività e persino fatuità di una letteratura che da tempo si è dimessa da se stessa: se non stupiscono il lettore di oggi le pagine ricreative e gastronomiche, datatissime, di Antonio Baldini, tuttavia fa un certo effetto (un effetto di filisteismo, di procurata cecità e talora di smaccata ipocrisia) rileggere nel loro contesto quelle tanto finemente elaborate e ammanierate di colui che per decenni tenne cattedra al Corriere, Emilio Cecchi, le pagine di uno che il 23 giugno 1936, nei giorni dell’Impero, non ha il coraggio di infierire apertamente sulle spoglie di Massimo Gorkij ma trova il modo di sottovalutarlo firmando un necrologio pelosissimo, che come al solito dice e non dice. Peraltro la viltà di simili calligrafi è da tempo storicizzata come, viceversa, l’atteggiamento nicodemico di quanti, pur accettando di scrivere su un giornale ormai fascistizzato, vi mantennero un profilo dignitoso e relativamente autonomo: è il caso di Giuseppe Antonio Borgese, di un critico finissimo quale Attilio Momigliano, poi epurato nel ’38 in quanto giudeo vitando, e soprattutto di Pietro Pancrazi (Cortona 1893-Firenze 1952) laddove la limpidezza dello stile e quella delle scelte recensorie sono testimoni di una natura schiettamente liberale. Le sorprese della antologia risalgono semmai al periodo che va dalla fondazione del giornale all’era Albertini, quando la Terza pagina è ancora un richiamo dalla prima o con essa convive. Qui Pischedda recupera diverse firme di sorprendente qualità, non tanto quelle risapute di Capuana e De Roberto (latori di un verbo positivista e verista che fu a lungo maggioritario nei gusti del pubblico), quanto, per esempio, dei dimenticati Vittorio Pica e Domenico Oliva, che traslarono in Italia nomi e libri del decadentismo e del simbolismo francese, oppure di Ettore Janni (Vasto 1875-Milano 1956) il cui profilo è davvero paradigmatico: autodidatta di umili origini, dannunziano della prima ora e a vita (se del grande conterraneo proprio lui voltò in italiano La Pisanella e Il martirio di San Sebastiano), pupillo di Albertini con cui nel 1925 lascia il giornale che lo ha assunto nel 1903 per ritornarvi come direttore fra il 25 luglio e l’8 settembre ’43. Ebbene, basterebbe leggere il suo necrologio di Giulio Verne («Il vecchio mago è morto», è così che comincia), l’apologia di Federigo Tozzi in data 6 marzo 1920 o la recensione infastidita e insieme informatissima al secondo volume della Recherche (dove pure è detto lapidariamente: «Marcello Proust è un romanziere noioso») per appurare la qualità di un critico della domenica dove non c’è mai ombra di dilettantismo. Eppure Janni, come poi per altra via Giulio Caprin, non era quello che si dice uno specialista ma, appunto, un intellettuale di marcati interessi sociali e politici. La magnanimità e l’umanesimo a tutto tondo di cui testimoniavano uno Janni o un Caprin sono andati fatalmente perduti per il subentrare di più rigide ripartizioni accademiche.
Chi potrebbe oggi immaginare Angelo Panebianco, Antonio Polito, Piero Ostellino o insomma uno del Tea Party interno al Corriere come firmatario di una recensione letteraria? Non sarebbe pensabile e, forse, nemmeno augurabile.

“Alias domenica – il manifesto”, 4 marzo 2012

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