Lucilla Pizzoli |
Può un Paese che di
fatto scoraggia l’uso della propria lingua ai livelli più alti
dell’attività intellettuale proporne persuasivamente la diffusione
come mezzo d’integrazione a coloro che con fatica s’avvicinano ai
gradini più bassi della sua scala sociale? È solo una delle molte e
stimolanti domande che balenano alla mente del lettore di un bel
libro di Lucilla Pizzoli (La politica linguistica in Italia,
dall'unificazione nazionale al dibattito sull’internazionalizzazione,
Carocci) dedicato alla politica linguistica in Italia. Sono
domande che l’autrice non pone direttamente, affrontando il tema
nel modo più neutro e distaccato, e mirando a un ambizioso obiettivo
scientifico. È difficile dire se grazie a queste pagine la «politica
linguistica» sarà riconosciuta in Italia come autonoma branca di
ricerca e magari anche d’insegnamento. Di discipline nuove e più o
meno fantasiose, in effetti, se ne son viste nascere fin troppe. Ma è
certo che l’idea di mettere in valore la scientifica
professionalità di chi si occupa delle decisioni politiche (e quindi
legislative) che coinvolgono la lingua è meno peregrina di tante
altre. Perché è un’idea che chiama a raccolta le solide
competenze del linguista e quelle altrettanto complesse del giurista.
E perché risponde a un’esigenza oggi sempre più urgente: quella
di sottrarre all’improvvisazione e alla marea montante del rifiuto
della competenza un campo delicatissimo, in cui far danni è facile e
alla portata di molti, ma ripararli è molto complicato e possibile
solo con strumenti culturali avanzati.
Il volume traccia, in
densi capitoli fitti di riferimenti legislativi, un percorso
ragionato attraverso leggi decreti regolamenti dichiarazioni
d’indirizzo politico che in Italia (e nell’Unione europea, con
ovvie ricadute sull’Italia) sono intervenuti su questioni
linguistiche, modificando, condizionando o influenzando gli usi
pubblici (e sociali in genere) della lingua. Un indubbio pregio
scientifico di questo libro sta nel presentare una gran quantità di
questioni con scrupolosa precisione documentaria. Il pregio può
naturalmente diventare un difetto per chi volesse avere un’idea più
chiara del peso specifico di singole questioni che nell’economia di
questa trattazione rischiano di apparire equivalenti, ma certo non lo
sono in termini di ricaduta sull’opinione pubblica, di conseguenze
sociali, di capacità di suscitare reazioni, e in alcuni casi anche
appassionate domande come quella da cui siamo partiti. Si va
dall’insegnamento scolastico alla toponomastica, dalla terminologia
commerciale alle insegne, dagli usi delle aule di giustizia
agl’interventi sul sessismo linguistico e sulla chiarezza degli
atti burocratici: numerosissimi, e talora inattesi, sono gli ambiti
della storia italiana recente toccati da questioni di politica
linguistica. Cioè da leggi e provvedimenti (o più spesso da singoli
articoli o cenni ancor più rapidi, che passano tutti sotto la lente
della linguista).
Dalla lettura del volume
emerge chiaramente che nonostante l’ampiezza e la complessità
delle sfide linguistiche poste da storia e geografia del Paese, lo
Stato italiano non ha quasi mai avuto un atteggiamento interventista
in fatto di politiche linguistiche. Fanno eccezione poche fasi (ad
esempio il Fascismo, il cui impegno nel far male compromise
l’iniziativa di chi in seguito avrebbe voluto far bene, ma dovette
temere di apparire autoritario), e pochi ambiti, come quello delle
minoranze linguistiche o quello dei rapporti tra italiano e dialetti
(soprattutto nelle politiche scolastiche postunitarie). Restano a
lungo scoperti, per contro, la definizione del ruolo attivo
dell’italiano in Italia, in Europa e nel mondo. Restano marginali
nella mente del legislatore - uno dei pochi in Europa a non aver
previsto uno spazio specifico per la lingua nella Costituzione -, gli
interventi concreti miranti a rafforzare l’italiano come lingua di
cultura, e a promuovere un’autentica diffusione di un colto
plurilinguismo in una popolazione un tempo almeno bilingue (grazie ai
dialetti), poi sempre più pigramente monolingue o “zerolingue”,
fino alle schizofreniche impennate recenti. Quelle che da un lato
hanno risvegliato l’attenzione per lingue minoritarie e dialetti in
forma rivendicativa e quasi antagonistica, e da un altro hanno
sacrificato l’italiano - antica e gloriosa lingua scientifica -
all’altare di un’internazionalizzazione che sa di resa al
globalismo. Le direttive ministeriali sui progetti di ricerca
obbligatoriamente in inglese, la retorica di un’esterofilia più
dichiarata che concretamente tradotta in innalzamento della cultura
media. E in parallelo, le norme raffazzonate e zoppicanti
sull’integrazione linguistica dei nuovi italiani, a cui non si sa
chi e non si sa come qualcuno dovrebbe pur insegnare una lingua cui
tanti italiani vecchi, ormai, non tengono più.
"Il Sole 24 Ore Domenica", 11 luglio 2018
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