8.8.18

La politica linguistica va sottratta all’improvvisazione. Un libro di Lucilla Pizzoli (Lorenzo Tomasin)

Lucilla Pizzoli

Può un Paese che di fatto scoraggia l’uso della propria lingua ai livelli più alti dell’attività intellettuale proporne persuasivamente la diffusione come mezzo d’integrazione a coloro che con fatica s’avvicinano ai gradini più bassi della sua scala sociale? È solo una delle molte e stimolanti domande che balenano alla mente del lettore di un bel libro di Lucilla Pizzoli (La politica linguistica in Italia, dall'unificazione nazionale al dibattito sull’internazionalizzazione, Carocci) dedicato alla politica linguistica in Italia. Sono domande che l’autrice non pone direttamente, affrontando il tema nel modo più neutro e distaccato, e mirando a un ambizioso obiettivo scientifico. È difficile dire se grazie a queste pagine la «politica linguistica» sarà riconosciuta in Italia come autonoma branca di ricerca e magari anche d’insegnamento. Di discipline nuove e più o meno fantasiose, in effetti, se ne son viste nascere fin troppe. Ma è certo che l’idea di mettere in valore la scientifica professionalità di chi si occupa delle decisioni politiche (e quindi legislative) che coinvolgono la lingua è meno peregrina di tante altre. Perché è un’idea che chiama a raccolta le solide competenze del linguista e quelle altrettanto complesse del giurista. E perché risponde a un’esigenza oggi sempre più urgente: quella di sottrarre all’improvvisazione e alla marea montante del rifiuto della competenza un campo delicatissimo, in cui far danni è facile e alla portata di molti, ma ripararli è molto complicato e possibile solo con strumenti culturali avanzati.
Il volume traccia, in densi capitoli fitti di riferimenti legislativi, un percorso ragionato attraverso leggi decreti regolamenti dichiarazioni d’indirizzo politico che in Italia (e nell’Unione europea, con ovvie ricadute sull’Italia) sono intervenuti su questioni linguistiche, modificando, condizionando o influenzando gli usi pubblici (e sociali in genere) della lingua. Un indubbio pregio scientifico di questo libro sta nel presentare una gran quantità di questioni con scrupolosa precisione documentaria. Il pregio può naturalmente diventare un difetto per chi volesse avere un’idea più chiara del peso specifico di singole questioni che nell’economia di questa trattazione rischiano di apparire equivalenti, ma certo non lo sono in termini di ricaduta sull’opinione pubblica, di conseguenze sociali, di capacità di suscitare reazioni, e in alcuni casi anche appassionate domande come quella da cui siamo partiti. Si va dall’insegnamento scolastico alla toponomastica, dalla terminologia commerciale alle insegne, dagli usi delle aule di giustizia agl’interventi sul sessismo linguistico e sulla chiarezza degli atti burocratici: numerosissimi, e talora inattesi, sono gli ambiti della storia italiana recente toccati da questioni di politica linguistica. Cioè da leggi e provvedimenti (o più spesso da singoli articoli o cenni ancor più rapidi, che passano tutti sotto la lente della linguista).
Dalla lettura del volume emerge chiaramente che nonostante l’ampiezza e la complessità delle sfide linguistiche poste da storia e geografia del Paese, lo Stato italiano non ha quasi mai avuto un atteggiamento interventista in fatto di politiche linguistiche. Fanno eccezione poche fasi (ad esempio il Fascismo, il cui impegno nel far male compromise l’iniziativa di chi in seguito avrebbe voluto far bene, ma dovette temere di apparire autoritario), e pochi ambiti, come quello delle minoranze linguistiche o quello dei rapporti tra italiano e dialetti (soprattutto nelle politiche scolastiche postunitarie). Restano a lungo scoperti, per contro, la definizione del ruolo attivo dell’italiano in Italia, in Europa e nel mondo. Restano marginali nella mente del legislatore - uno dei pochi in Europa a non aver previsto uno spazio specifico per la lingua nella Costituzione -, gli interventi concreti miranti a rafforzare l’italiano come lingua di cultura, e a promuovere un’autentica diffusione di un colto plurilinguismo in una popolazione un tempo almeno bilingue (grazie ai dialetti), poi sempre più pigramente monolingue o “zerolingue”, fino alle schizofreniche impennate recenti. Quelle che da un lato hanno risvegliato l’attenzione per lingue minoritarie e dialetti in forma rivendicativa e quasi antagonistica, e da un altro hanno sacrificato l’italiano - antica e gloriosa lingua scientifica - all’altare di un’internazionalizzazione che sa di resa al globalismo. Le direttive ministeriali sui progetti di ricerca obbligatoriamente in inglese, la retorica di un’esterofilia più dichiarata che concretamente tradotta in innalzamento della cultura media. E in parallelo, le norme raffazzonate e zoppicanti sull’integrazione linguistica dei nuovi italiani, a cui non si sa chi e non si sa come qualcuno dovrebbe pur insegnare una lingua cui tanti italiani vecchi, ormai, non tengono più.

"Il Sole 24 Ore Domenica", 11 luglio 2018

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