Per
il trentennale della legge che chiudeva i manicomi (la cosiddetta
“180” o legge Basaglia) nel maggio del 2008, “l'Unità”
pubblicò la bella testimonianza di Peppe Dell'Acqua che qui
riprendo, recensione a un libro di Nico Petrelli che proprio
“l'Unità” ristampava in quell'anno, L’uomo che
restituí la parola ai matti (prima
edizione 2004, Editori Riuniti). (S.L.L.)
Franco Basaglia |
Era
il giugno 2002, e in un’affollatissima sala della Stazione
Marittima di Trieste, stavamo presentando il libro Franco Basaglia di
Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio. A un certo punto, dal
pubblico si alza un giovane che chiede la parola. Conclude il suo
intervento con passione: «Vorrei dire solo questo: quanto, a noi
giovani oggi, manca un Basaglia». Questo giovane era Nico Pitrelli,
l’autore del libro L’uomo che restituí la parola ai matti,
che domani i lettori troveranno in edicola con l’Unità. Mi sono
chiesto e molti di noi presenti a quell’incontro l’avranno fatto,
che cos’è che fa dire a un giovane, per giunta laureato in fisica:
«Ci manca un Basaglia... ».
Ho
conosciuto Franco Basaglia che Gorizia era già finita; lavorava da
qualche anno a Colorno ed era nell’aria «l’inizio dell’avventura
triestina». Era la primavera del 1971. L’occasione fu l’incontro
Cus Parma-Cus Napoli. Siamo andati a trovarlo a Colorno, io e alcuni
compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di
Malattie Nervose e Mentali e giocatori della squadra di rugby
dell’Università. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto
L’istituzione negata. Stavamo già ereditando dal
sessantotto interrogativi e problemi sulla professione che ci
apprestavamo a intraprendere: il rapporto tra la nostra professione e
gli apparati del potere e del consenso, il ruolo del medico a essi
subalterno.... Era per tutti noi la prima volta che entravamo in un
manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico
che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con
familiarità, ci mise a nostro agio, ci parlava dandoci del tu. Oggi
può sembrare strano, ma in clinica le gerarchie erano rispettate e
noi studenti eravamo sempre all’ultimo posto della coda dei camici
bianchi che si formava dietro al direttore, il quale mai si rivolgeva
a noi direttamente.... Franco Basaglia ci disse che sarebbe andato a
lavorare a Trieste e che cercava medici giovani. Avrebbe fatto di
tutto per formare un gruppo di giovani psichiatri. Piú semplice –
diceva – formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto
che cambiare testa e cultura a psichiatri vecchi e già formati. Il
rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro.
Appena
arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito «al
fronte», nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto
immediato con i problemi: la responsabilità, la gestione del
reparto, l’assemblea, i rapporti con le gerarchie degli infermieri.
Passavamo
giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni
quotidiane difficili e spesso frustranti, affrontavamo i problemi
della giornata, i nuovi programmi terapeutici, le storie degli
internati che riemergevano. Di fronte all’impasse, ai vicoli ciechi
in cui ci cacciavamo, Franco Basaglia riusciva sempre a spostare i
termini del problema, a farci guardare da un altro punto di vista, a
capovolgere le situazioni. Riuscí a spostare, a capovolgere, anche
la nostra vita. Con Basaglia, senza accorgercene, abbiamo trovato la
nostra strada, senza separazioni, senza dissociazioni: è la «lunga
marcia attraverso le istituzioni» che ci ha indicato con il lavoro
quotidiano, instancabile. Accettare la sfida del lavoro
istituzionale: trasformare, creare nuovi spazi per agire, determinare
momenti di vita e di creatività...
Un
giorno di molti anni dopo, chiesi ad Antonio Facchin, infermiere già
alla fine degli anni sessanta, che ha vissuto e partecipato al
cambiamento, di organizzare una riunione con gli infermieri, gli
ispettori, i capisala oggi ultrasettantenni. Vogliamo salvare la
memoria del manicomio, dissi. E cosí che insieme ad altri, ho
rivisto il vecchio signor Facchin, il padre di Antonio. Il vecchio
Facchin ha cominciato a lavorare a San Giovanni nel 1947. È andato
in pensione 25 anni dopo, nel ’72. Proprio mentre cominciava il
lavoro di Franco Basaglia. Ha detto con rammarico: «Per 25 anni
avevo sempre desiderato parlare con i medici, con i superiori;
desideravo parlare dei malati, di quello che mi dicevano. Era
vietato. Quando finalmente sono cominciate le riunioni, le assemblee
e le porte aperte e perfino Basaglia una volta ha chiesto il mio
parere, io sono andato in pensione». Ora, a distanza di tanti anni,
un giovane, fisico, che si è avvicinato alla storia del grande
cambiamento del manicomio nell’ambito di un Progetto di ricerca tra
la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) e il
Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, sulla comunicazione della
«follia» e della storia delle istituzioni in psichiatria, ritrova
il bisogno di raccontarci Basaglia e in lui e con lui, l’importanza
del comunicare, dello sforzo di stare nelle cose e di aiutare chi
forse fa piú fatica degli altri, a starci. Restituire, come dice il
titolo del libro, la parola ai matti. Che sono, prima di tutto,
persone, uomini e donne, con il medesimo, taciuto, urlato, disperato,
inconfessato bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuti come
soggetti della propria esistenza, del proprio qui e ora. Stare nelle
contraddizioni, anche la contraddizione di essere «diversi»,
«malati» e nel contempo con gli stessi sentimenti, le medesime
pulsioni, i desideri di tutti. Gli «uguali», i «sani». Questa
capacità dialettica che tuttora manca ovunque, e senza la quale è
difficile, se non impossibile, avere e riprodurre direzione, senso,
spessore, umanità. Comunicare questo, a se stessi, al mondo, a chi
ci sta curando o dovrebbe farlo, è Basaglia, il suo lascito, il suo
insegnamento. Il libro di Nico Pitrelli coglie sicuramente questa
attenzione, questa urgenza che Basaglia ha posto nel rompere le
barriere comunicative all’interno dell’istituzione manicomiale –
il luogo della negazione assoluta della comunicazione.
L’altro
aspetto che il libro certamente sottolinea è quello della capacità
di sviluppare una comunicazione al di fuori del campo cosiddetto
psichiatrico. L’Ospedale psichiatrico cosí come nasce e si
costruisce – e Nico lo spiega bene nella parte storica del suo
libro – è la frattura di questa comunicazione: le mura
dell’ospedale chiudono un discorso e da quel momento in poi si
tende sempre piú a far prevalere la ragione sulla follia, e la
ragione diventa sempre piú «pulita», eliminando sistematicamente
tutte le contraddizioni. Il discorso diventa sempre piú asettico,
fino a rimandarci la freddezza, l’igienicità delle macellerie,
delle camere mortuarie, dei tavoli di marmo, dove ogni cosa è al suo
posto, in «ordine». Questo modo di comunicare intorno alla follia,
alle persone che ne soffrono, è ancora oggi impregnato di questa
logica, perché tutto viene comunicato a partire dalla negazione
della persona. E tutto ciò che ha a che vedere con l’umano viene
cancellato, non ha piú senso vedere che cosa le persone mangiano,
come si lavano, come vestono, dove vivono, che rapporti hanno. Tutto
nasce e viene riportato a una diagnosi. Se si leggono, oggi, i lavori
«scientifici» della psichiatria si coglie la scomparsa dei luoghi,
delle Istituzioni, delle persone. Della sofferenza, delle urla,
dell’opposizione muta e sorda. Degli ambienti miseri, sporchi,
vuoti. Delle porte chiuse, delle persone legate, dei corpi violati.
Tutto viene restituito in quell’asettico linguaggio dove la
singolarità scompare e ogni cosa viene riportata a medie, numeri,
definizioni evidenti e indiscutibili.
Quando
Basaglia si interroga su che cos’è la psichiatria e tenta di
rispondervi, apre in realtà gli armadi, fa venire fuori gli
scheletri, e nel momento in cui si denuncia, si svela, ecco che si
apre anche il campo della comunicazione. Senza questo svelamento,
Basaglia non avrebbe nulla da comunicare se non la piatta
riproduzione della psichiatria stessa. Altri sguardi, altre orecchie,
altre bocche possono finalmente giocare ora in questo campo
comunicativo. L’apertura ai media, agli amministratori, ai
politici, ai filosofi, agli artisti, agli architetti, diventa
possibile perché finalmente questo terreno conquistato dalla
psichiatria e difeso da muri alti e impenetrabili tanto concreti
quanto simbolici è un terreno che mostra tutta la sua inconsistenza
e tutta la sua violenza...Basaglia fa la prima grande campagna contro
il pregiudizio e lo stigma, senza mai dichiararlo. Da quel momento, e
nel libro ciò appare chiaro, il pregiudizio non ha piú niente a che
vedere con quello che la gente pensa ma piuttosto con quanto i poteri
e la scienza psichiatrica producono e riproducono instancabilmente,
in termini di fratture, esclusioni, sottrazioni. Che cosa fa la
psichiatria, è la domanda da farsi. In questo senso la chiusura
dell’Ospedale psichiatrico assume il significato dell’unico
intervento oggi possibile per far fronte allo stigma. Il libro mi
sembra utile a partire da due considerazioni. La prima, molto
generale e che però mi colpisce continuamente, è che i giovani
dell’età di Nico sanno poco e i giovani che io incontro ogni anno
al mio corso di psicologia sono desiderosi, sono proprio come terre
secche che hanno voglia e bisogno di sapere...
L’impegno
che Nico si è preso dicendo «quanto ci manca un Basaglia» lo ha
mantenuto in questo libro, cercando di offrire ai giovani, ai suoi
coetanei e molti altri, uno strumento piú che necessario. Credo che
dicendo che ci manca un Basaglia, Nico voglia dire che ci manca uno
sguardo obliquo, trasversale, dinamico, uno sguardo dialettico
insomma. Oggi la spinta all’omologazione è irresistibile e nulla
veramente mette in discussione un impianto di pensiero dominante; è
difficile trovare uno spiraglio, un filo, una posizione dislocata per
contrapporsi. La seconda considerazione è che questo libro mi
tranquillizza rispetto al futuro. Ho avuto e ce l’ho tuttora,
l’ansia che tutto vada dissipato, che la memoria di questa vicenda,
di cui io penso non bisogna perdere nulla, vada invece perduta. Il
libro di Nico contribuisce, assieme ad altri che mi auguro
continueranno a venire, a costruire mattone su mattone una
disponibilità di conoscenza utilissima alle generazioni del presente
e a quelle future. Oggi tutti i percorsi di formazione in medicina,
in psichiatria, in psicologia, in scienze infermieristiche sono
percorsi che di nuovo hanno trovato il loro specialismo, la loro
separatezza, la loro assoluta incapacità di rapportarsi a radici, di
costruire continuità, coerenza, ponti, campi di tensione,
possibilità di opposizione.
l'Unità
12 maggio 2008
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