Lucio Libertini |
… un ruolo importante
l’ebbe il partito socialista. Esso alla metà degli anni cinquanta
entrò in una delle crisi più gravi della sua storia tormentata. Ciò
accadde quando, dopo il breve ma intenso periodo della gestione di
Morandi, una parte del partito, guidata da Nenni, propose un radicale
mutamento di strategia, addirittura di collocazione nel movimento di
classe, prendendo spunto da due ordini di fatti. Il primo, interno,
era la crisi del movimento operaio nelle fabbriche più grandi (era
il periodo della tremenda sconfitta nella Fiat) e il nuovo slancio
espansivo di cui sembrava dare prova il sistema capitalistico. Il
secondo, internazionale, era la crisi dello stalinismo, la morte di
Stalin, quello che seguì, il XX Congresso del Pcus, il crollo di
miti, convinzioni, illusioni.
La scelta compiuta dalla
destra socialista mirava alla separazione dai comunisti e
all’alleanza con la Dc, attraverso il centro-sinistra. Ma alla sua
base vi era una matrice più generale; la convinzione profonda che il
movimento operaio vivesse due fallimenti decisivi, di portata
storica. Un clamoroso fallimento veniva giudicata l’esperienza dei
paesi socialisti. Ma, più ancora, si diffuse in quei compagni la
sensazione che gli sviluppi storici mettessero in discussione la
dottrina marxista, e più precisamente la funzione dirigente della
classe operaia, la sua capacità di essere, nell’area capitalistica
avanzata, protagonista di un reale processo rivoluzionario che
partisse dalla sua condizione specifica. Cominciarono allora i
discorsi sull’inevitabile integrazione della classe operaia nella
logica del capitale nell’epoca della grande industrializzazione. E
questi discorsi, che iniziarono da destra, dall’ala riformista
riecheggiarono poi a sinistra, nelle prime avvisaglie dei gruppi
minoritari che concentravano le loro speranze messianiche nel Terzo
mondo. Fra quello il periodo nel quale si realizzarono per la prima
volta in Italia i consumi di massa, la produzione di massa. Fu
coniato il termine «neocapitalismo», ed esso venne usato come una
spiegazione decisiva dell’arretramento del movimento di classe
proprio nelle grandi fabbriche, e della fatale crescita di una
socialdemocrazia di massa simile a quelle che da anni sono radicate
in altri paesi europei. Nenni parlò allora di una «stanchezza delle
masse» (e si era a pochi anni dal sessantotto!): e non di una
stanchezza fisica o sindacale egli parlava, ma di una stanchezza
storica, e dunque della necessità di trovare soluzioni democratiche
al di fuori della funzione rivoluzionaria della classe operaia.
In quelle circostanze
venne fuori anche l’idea che la società italiana potesse essere
liberata dalle arretratezze attraverso un’alleanza tra classe
operaia e capitale avanzato, sulla base di un’esaltazione delle
virtù razionalizzatrici e progressive della tecnica e della scienza.
Furono queste le posizioni assunte da Giolitti, il quale passò
perciò nelle file del partito socialista prima nella sua sinistra e
subito dopo nella sua destra.
Queste posizioni
suscitarono nel Psi una violenta reazione e opposizione, nella quale
confluirono però due tendenze diverse. Una di esse si rifaceva alla
vecchia tradizione massimalista, serratiana, ed era in sostanza
dominata da una concezione di fedeltà alla politica unitaria. Si
trattava di una posizione sana, al cui fondo c’era un serio istinto
di classe. Del resto credo che sotto questo profilo oggi s’imponga
una più generale rivalutazione del massimalismo, senza che perciò
si taccia sui suoi limiti e sui suoi errori. Ma era anche una
posizione passiva, a rimorchio, senza prospettiva, senza un’analisi
adeguata della realtà in movimento; passiva non solo rispetto al
partito comunista, ma in rapporto al dibattito stesso interno al
partito comunista, assai vivace in quel momento. Di qui l’accusa
che l’ala riformista mosse alla sinistra, di sostenere in fondo che
ai comunisti spettasse discutere e decidere, e ai socialisti seguire.
Ma nella sinistra
socialista era presente e crebbe continuamente anche un altro
orientamento. Questo gruppo di compagni difendeva sino in fondo la
politica unitaria con i comunisti, ma non credeva che alle scelte
dell’ala riformista si potesse rispondere solo con un no,
nell’immobilismo, ignorando rincalzare di nuovi giganteschi
problemi e le necessità del rinnovamento e di una analisi adeguata e
spregiudicata.
La fedeltà non bastava;
le nuove generazioni potevano riconoscersi solo in un’indicazione
valida per il futuro. La stessa politica unitaria non doveva essere
considerata come un’intoccabile arca santa o come un bagaglio, a
volte pesante, da trascinarsi dietro per un elementare senso
dell’onore; ma doveva essere una costruzione, non la
giustapposizione degli schieramenti, e un rapporto vivo e creativo
tra partiti e classe.
Questa componente della
sinistra socialista, nel tentativo di ridefinire una posizione del
partito socialista nel nostro tempo, propose quattro esigenze,
collegate tra loro. La prima esigenza era quella di aggiornare
l’analisi dello sviluppo capitalistico e della società italiana.
Alla luce della grande espansione economica che aveva luogo in quegli
anni, dello sviluppo di una produzione e di un mercato di massa,
aveva ancora senso presentare il capitalismo italiano come il
prodotto di una rivoluzione borghese mancata, e strozzata in fasce?
Era ancora possibile fare delle sue indubbie arretratezze il terreno
di lotta fondamentale ed esclusivo del movimento operaio, riducendo
il suo compito a quello di realizzare la rivoluzione borghese
incompiuta, di raccogliere e di portare al traguardo «le bandiere
che la borghesia aveva lasciato cadere per terra»? Forzando un poco
la realtà, e certo con una buona dose di schematismo, noi (di
quell’orientamento faceva parte chi scrive) ponevamo in rilievo gli
elementi di avanzamento e di sviluppo del sistema capitalistico
italiano, l’intreccio tra le contraddizioni che derivano dalla
arretratezza e quelle che derivano dallo sviluppo, e sostenevamo che
occorreva accentuare e mettere in primo piano gli elementi di
socialismo da introdurre nella società italiana perché risultavano
proprio dalla sua trasformazione oggettiva e dal nuovo livello delle
contraddizioni. Su questo terreno, ovviamente, lo scontro con la
destra socialista, tutto chiuso nelle posizioni neoriformiste che ho
indicato, fu durissimo e frontale; ma una discussione vivace si apri
anche con il partito comunista, pur se in realtà essa si mescolò
poi con un dibattito analogo che autonomamente si era aperto tra i
comunisti. Al convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle
tendenze del capitalismo italiano si ebbe un momento assai elevato e
vivo di questo dibattito unitario, al quale peraltro la destra
socialista si sottrasse sostanzialmente, proiettata com’era al
rovesciamento delle alleanze e alla costruzione di un rapporto nuovo
con la De.
Da questa premessa di
analisi si faceva discendere il secondo tema, quello della centralità
operaia. Si poneva in rilievo la grande debolezza dei partiti di
sinistra nelle grandi fabbriche — che la sconfitta alla Fiat aveva,
per così dire, messo a nudo — si mostrava la contraddizione tra
questo fatto e i principi e la natura stessa dei comunisti e dei
socialisti; e si facevano risalire le cause di questa crisi a una
politica che si era lasciata «sorpassare» dallo sviluppo
capitalistico, e che, tutta impegnata nello sviluppo degl'istituti di
democrazia borghese, si era distaccata dalla concretezza della
condizione operaia e aveva messo in ombra il ruolo dei lavoratori
delle fabbriche. Di qui nasceva l’esigenza di una svolta nella
strategia della sinistra, che doveva riportare al suo centro il ruolo
della classe operaia, partendo dalla centralità della fabbrica nella
società capitalistica; e il tentativo di individuare le condizioni e
le ragioni per dare spazio a una politica di alternativa e di
rinnovamento che partisse dalla condizione specifica della classe
operaia. Solo cosi — ci sembrava — era possibile sconfiggere la
rassegnazione dei riformisti e l’accettazione di una logica di
integrazione nel sistema che si voleva fare apparire fatale e
ineluttabile.
Le due prime esigenze
sfociavano nella grande questione della democrazia e del suo rapporto
con il socialismo. Nel momento in cui si apriva la discussione sui
regimi comunisti, sull’Unione Sovietica, sui limiti di questa
esperienza storica, a coloro che su questi fatti esercitavano una
critica da destra, nel tentativo di ricondurre una volta per tutte il
movimento operaio italiano nell’alveo esclusivo della democrazia
borghese, questa parte della sinistra socialista opponeva una critica
da sinistra, che ridesse spazio e fiducia a una prospettiva di
democrazia socialista. Si intendeva così riproporre la funzione
creativa della classe operaia, l’esigenza di lotta per una società
nuova, per un nuovo livello di democrazia. Con la proposta di una
strategia del controllo operaio, dell’autogoverno, della
partecipazione si intendeva assumere che nuovi contenuti sociali
esigono parallelamente la costruzione di un nuovo Stato, diverso
organicamente dalla democrazia borghese. In questa concezione, si
badi bene, non c’era affatto il rifiuto della storia precedente, la
velleità di ripartire da zero: vi era anzi l’idea, molto ferma,
che si dovessero recuperare tutti i valori democratici contenuti
nella democrazia borghese, e non restringere in alcun modo, ma solo
allargare la democrazia, rompere i limiti che al suo sviluppo erano
frapposti dall’ordine proprietario. Il socialismo — si affermava
— non è la giustizia che, in una semplice sommatoria, si aggiunge
alla democrazia esistente; è una nuova struttura della società e
quindi del potere statale, e lo sviluppo della società socialista
comporta il deperimento del potere statale in nuove forme più
avanzate di autogoverno.
La conclusione politica
di questo ragionamento era — per ciò che riguardava la prospettiva
del movimento operaio — il rifiuto di ritenere permanente e
ineliminabile la divisione tra socialisti e comunisti. Se nel
presente occorreva portare avanti la politica di unità nutrendola di
comuni iniziative di lotta e di un aperto confronto, tutto ciò
doveva servire a promuovere la riunificazione della sinistra in un
unico grande partito della classe operaia, fondato sul rifiuto della
socialdemocrazia e del dogmatismo. Dalla scissione di Livorno sono
passati mille anni fu il titolo significativo che “Mondo
nuovo”, giornale della sinistra socialista, dette a una discussione
sullo stato dei rapporti tra socialisti e comunisti e sulla loro
prospettiva futura: come dire che troppa acqua era passata sotto in
ponti della storia, e che i partiti e le loro politiche si dovevano
misurare sul presente e sul futuro, e non alla stregua delle più
antiche polemiche.
Ripensando a quelle
posizioni, a quel dibattito e a quella lotta, io debbo oggi
riconoscere che nelle nostre tesi vi era certamente semplicismo,
alcune schematizzazioni eccessive, e una sottovalutazione della
necessità di condurre il movimento operaio, contro le radicate e
ricorrenti tendenze del massimalismo, a farsi carico del problema
dello Stato e del potere, della gestione complessiva della società
italiana. Ma ritengo che l’essenza di quelle idee fosse giusta, e
non solo esprimesse l’unico modo possibile di lottare contro il
tentativo di inglobare la sinistra dentro la logica del sistema
capitalistico e di mantenere aperta una prospettiva socialista, ma
fosse poi anche una risposta assai pertinente alle inquietudini, agli
interrogativi, alle nuove tendenze che emergevano dalla società
italiana e che sarebbero venute in piena luce alcuni anni dopo.
A quelle posizioni è
toccata una sorte contraddittoria, e per certi versi strana. Da un
lato esse sembravano essere quelle di una piccola minoranza, priva di
peso. Non solo la destra socialista fece muro, ma difficoltà serie
sorsero in seno alla sinistra socialista, e da parte comunista, tutto
sommato, le chiusure furono maggiori delle aperture, anche se in
pratica solo con i comunisti riuscimmo a discutere sul serio. Nel
1961 Panzieri, con il quale avevamo appunto scritto le tesi sul
controllo operaio, lasciò il Psi e la sinistra socialista:
l’occasione della rottura fu il dissenso sulla possibilità di
continuare il nostro discorso nell’ambito del movimento operaio
organizzato. Panzieri aveva maturato una sfiducia radicale a questo
riguardo, io e la maggior parte dei compagni eravamo di diverso
avviso: anche se poi, naturalmente, lo sviluppo del dissenso fece
venire in luce altre differenze teoriche, che riguardavano il
significato ultimo da dare alla posizione inizialmente comune sulla
centralità della classe operaia.
D’altra parte, invece,
gli anni sessanta hanno visto una diffusione assai vasta di quelle
posizioni; anzi, semmai, vi è stata una moltiplicazione delle loro
interpretazioni, e in molti casi uno svisamento dei contenuti
originari (e a Giorgio Amendola, con il quale avemmo ripetute e
franche discussioni, debbo rimproverare d’avere troppo spesso
sbrigativamente confuso in un solo fascio l’una e l’altra cosa).
Dal distacco di Panzieri dal partito socialista nacquero la rivista
“Quaderni rossi” e il gruppo che si raccolse attorno a lui a
Torino, e che storicamente credo si possa definire la prima
organizzazione della sinistra extraparlamentare, per usare una
terminologia rozza ma chiara. Da quel ceppo crebbero poi molti rami e
tendenze, e tutto ciò alimentò per mille rivoli l’emergere della
contestazione di massa del sessantotto.
Ma nel frattempo la
sinistra socialista, sconfitta per un piccolo margine all’interno
del Psi, rifiutando di farsi sostegno anche indiretto della nuova
socialdemocrazia unificata, si scisse e si costituì in partito, nel
Psiup: e intorno al Psiup crebbe, soprattutto dopo il 1965,
l’adesione di vasti strati di giovani, studenti, impiegati, operai
che si riconoscevano nella politica del controllo operaio, e che
rifiutavano un’interpretazione del Psiup e della sua funzione nella
chiave della sola fedeltà unitaria. Non si hanno certo strumenti di
misura a questo proposito, ma mi pare di poter dire che nel 1968,
quando i socialisti di unità proletaria ottennero un milione e mezzo
di voti alle elezioni politiche, il nerbo dei militanti attivi era in
prevalenza composto di questo orientamento.
Nel bene e nel male, per
i contenuti e i contributi positivi come per gli errori e per le
distorsioni che si ingenerarono, il Psiup tenne a battesimo il
movimento del sessantotto, lo stimolò, ne animò le prime spinte,
offri i temi e le prime parole d’ordine di lotta.
L’invasione della
Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche e del patto di
Varsavia determinò una crisi verticale del Psiup e di quella che era
stata la sinistra socialista. Quell’avvenimento drammatico, che di
per sé apriva una discussione di fondo sulla democrazia, sul
socialismo, sui paesi del socialismo reale, fece emergere l’equivoco
irrisolto della sinistra socialista, nella quale, al di sotto di
posizioni di intransigenza teorica e politica e a volte di
massimalismo, coabitavano tendenze cosi diverse, che andavano dal
rinnovamento più spinto sino alla conservazione dogmatica. Le
ambiguità, le incertezze, le indecisioni del Psiup in quella
occasione determinarono una dispersione e un crollo della sua forza.
Moltissimi giovani si allontanarono, i più confluendo nei movimenti
estremisti che sorgevano, qualcuno persino entrando nel partito
comunista — che sulla Cecoslovacchia aveva preso una posizione
critica del tutto limpida, e che si stava aprendo alla tematica e
alla realtà delle nuove lotte operaie — altri appartandosi dalla
lotta.
Da La generazione del
Sessantotto, Editori Riuniti
1979
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