8.8.18

Anni 80, Roma senza vespasiani. Giorgio Manganelli per una saggia politica degli escrementi. Un'intervista di Antonio Debenedetti

Roma 1960, Via Leutari con un vecchio vespasiano. Dalla raccolta "Roma sparita"

Inutile arrossire;
è indispensabile
un generoso piano per le latrine”

La capitale delude gli scrittori, che colgono segni di imbarbarimento della vita cittadina? «La macchina Roma mi sembra riottosa, sciatta e genericamente non collaborativa» dichiara subito Giorgio Manganelli. «Tutto ciò è nel carattere di questa onerosa capitale» prosegue, intervenendo nel dibattito sui grandi e piccoli problemi della città. «Non l’amo più» aveva confidato d’altronde Alberto Moravia, poche settimane fa, in un’intervista rilasciata su queste pagine: «Dall’antichità a oggi il piano stradale della città è salito di almeno quattro metri: sono quattro metri di immondizie» ha sottolineato, dal canto suo, Luigi Malerba.
Giorgio Manganelli
«Macchina riottosa» ma perché? Con Manganelli abbiamo parlato, fra le altre cose, di telefoni pubblici: sono quasi sempre introvabili o guasti o inservibili. Quando ci siano e funzionino, insperata fortuna, hanno a fianco il distributore dei gettoni scarico. Non migliora purtroppo la situazione allorché, spinti da urgenti necessità fisiologiche, si cerchi un gabinetto pubblico. A Roma ne esistono pochissimi, quei rari sono spesso sudici o addirittura infruibili.
Le eccezioni sono tali da confermare la regola d’un diffuso disagio, d’un esteso deserto, dove i servizi igienici sono più rari delle oasi. Far pipi è un problema al centro, un’avventura in periferia, dove chi può soprassiede, stringe i denti.

Non le sembra strano, Manganelli, che nella nostra città sia cosi difficile assolvere a dei bisogni naturali, che possono lecitamente farsi sentire in qualunque momento della giornata e in qualsiasi luogo?
«Mi ha sempre stupito, le dirò, l’indifferenza di qualsivoglia amministrazione romana nel considerare gli escrementi dei cittadini. Escrementi che, personalmente, rispetto e ritengo parte non secondaria della nostra laboriosa sopravvivenza. Avrà notato, specie d'estate, un intenso odore selvatico di urina fluttuare tra i Fori e il Colosseo, non impropria ma forse enfatica allusione alle antiche belve. Di fatto il frequentatore di Roma, che non si tenga cautamente all’ombra della propria casa, è sfidato da inevitabili crisi: hanno attinenza appunto a feci e orine.»

Ma come dar sfogo alle più urgenti necessità? Roma non difetta forse di gabinetti e di luoghi di «comodo»?
«Accade a me come a tutti, credo, di avere in mente una mappa di luoghi idonei. Dai quali dobbiamo purtroppo escludere i rari cessi pubblici, dispettosi e torvi lazzaretti cui non oserei abbandonare la mia orfana orina. Dunque si va a caccia di vespasiani, si istituiscono trattative con librerie di cui si finisce per diventare maniacali clienti. Si tengono presenti i rari bar, che ci conoscono come indenni da droga. Ora questa macchinosa decifrazione dei luoghi utopici del “comodo” dà inevitabilmente un carattere predatorio al rapporto con Roma, che nuoce forse alla delibazione dei fasti estetici della città. Resta il problema dei numerosi stranieri costretti a pianificare in modo coatto tempi e percorsi.»

Può fare qualche esempio, che illustri meglio il grave problema?
«Rammenterò quanto accaduto a un mio amico medico che, in settimane agostane, badava al suo dovere di pediatra. Mentre entrava in macchina, reduce da una visita in periferia, venne colto da atroci dolori addominali. Era nel cuore di una città dai portoni chiusi e dalle serrande abbassate. Allora sudore e tremito si impossessarono dello sventurato: fini per cadere cosi in una forma di delirio e meditò soluzioni temerarie. La più saggia delle quali era defecare nel bagagliaio della propria automobile, chiudendovisi dentro. Non rammento la conclusione.»

Lamenta, insomma, che nessuno provveda a dotare la città dei necessari servizi igienici?
«Quella che potremmo chiamare una saggia politica degli escrementi è totalmente assente da qualsivoglia programma, che prometta a Roma gioie sportive, diletti culturali e altre felicità dell’anima. È bene diffidare dell’anima, che tende facilmente ad arrossire quando si parla delle nostre umili, anonime feci. Ma credo che un nobile, intenso, generoso piano delle latrine sia indispensabile per restituire a questa capitale, già definita onerosa, una grazia che ci pare in pericolo grave e imminente.»

Corriere della sera, 31 marzo 1985

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