10.8.18

Lo so, ma non si dovrebbe (Marina Colasanti)


Lo so che ci si abitua.
Ma non si dovrebbe.
Ci si abitua a vivere in appartamenti bui che non hanno altra vista se non le finestre attorno. E poiché non hanno vista, ci si abitua subito a non guardare più fuori. E poiché non si guarda fuori, ci si abitua subito a non aprire completamente le tende. E poiché non si aprono le tende, ci si abitua subito ad accendere prima la luce. E man mano che ci si abitua, si dimentica il sole, si dimentica l'aria, si dimentica la vastità.
Ci si abitua a svegliarsi la mattina di soprassalto perché è già ora.
A fare colazione correndo perché siamo in ritardo. A leggere il giornale sull'autobus perché non possiamo sprecare il tempo del viaggio. A mangiare panini perché è già sera. A dormicchiare in autobus perché siamo stanchi. Ad andare a letto presto e dormire pesantemente senza aver vissuto il giorno. Ci si abitua ad aprire la finestra e a leggere della guerra. E accettando la guerra, accettiamo i morti e che ci siano cifre di morti. E accettando le cifre, accettiamo di non credere ai negoziati di pace. E non accettando i negoziati di pace, accettare di dover leggere tutti i giorni di guerra e delle cifre che si protraggono per molto tempo. Ci si abitua ad aspettare tutto il giorno per poi sentirsi dire al telefono: oggi non posso venire. A sorridere alle persone senza ricevere un sorriso di contraccambio. Ad essere ignorati quando avevamo tanto bisogno di essere visti. Ci si abitua a pagare per tutto ciò che si desidera o di cui si ha bisogno. E a lottare per guadagnare il denaro con cui si paga. E a guadagnare meno di quello di cui abbiamo bisogno. E a fare file per pagare. E a pagare più di quanto le cose valgano. E a sapere che si pagherà sempre di più. E a lavorare di più, per guadagnare più denaro, per avere di che pagare nelle file dove si deve pagare.
Ci si abitua a camminare per strada e vedere cartelloni, ad aprire le riviste e vedere annunci pubblicitari. Ad accendere la televisione e assistere a spot commerciali. Ad andare al cinema e ingoiare altra pubblicità. Ad essere istigati, condotti, disorientati, lanciati nell'infinita cascata dei prodotti.
Ci si abitua all'inquinamento. Al tremolio della luce artificiale. Allo shock che gli occhi subiscono con la luce naturale. Alla stupidità delle canzonette, ai batteri nell'acqua potabile. Alla contaminazione dell'acqua del mare. Alla lotta. Alla lenta morte dei fiumi. E ci si abitua a non sentire più i passerotti, a non cogliere la frutta dall'albero, a non avere nemmeno una piantina.
Ci si abitua a troppe cose per non soffrire. A piccole dosi, cercando di non sentire, allontaniamo un dolore qui, un risentimento lì, una rivolta là. Se il cinema è pieno, ci sediamo in prima fila e torciamo un po' il collo. Se la spiaggia è contaminata, ci si bagna solo i piedi e il resto del corpo suda. Se il lavoro è duro, ci si consola pensando al fine settimana. E se nel fine settimana non c'è molto da fare, andremo a dormire presto e pure soddisfatti perché abbiamo del sonno arretrato. Ci si abitua a non graffiarsi nelle asperità per preservare la pelle.
Ci si abitua ad evitare ferite, dissanguamenti, a schivare il coltello e la baionetta per risparmiarsi il petto.
Ci si abitua a risparmiare la vita.
Che a poco a poco si consuma, e che da tanto abituarsi, si perde da se stessa.


Nota
Marina Colasanti è nata nel 1937 da famiglia italiana ad Asmara, in Eritrea, ha vissuto poi alcuni anni in Italia e infine trasferita in Brasile dove vive e nella cui lingua (il portoghese brasiliano) scrive poesie, racconti per grandi e bambini, articoli per giornali e riviste, saggi. Il brano che qui è postato è tratto da Eu sei, mas não devia, Casa Editrice Rocco- Rio di Janeiro, 1996, e ripreso dal sito della rivista “Saragana” nella traduzione di Julio Monteiro Martins, con qualche marginale aggiustamento. (S.L.L.)

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