Da “manifesto” del 24 maggio posto questa sintesi dell'annuale rapporto Istat sullo stato economico e sociale dell'Italia. Nel giornale la commentava acutamente Galapagos. Ma credo che i nudi dati e gli onesti confronti non abbisognino di molti commenti e bastino a dirci la vergogna di un paese un tempo orgoglioso della sua “qualità sociale”, dopo che una parte consistente del suo popolo si è affidato al saltimbanco delle televisioni e ai suoi ludi circensi o al nazista lombardo e dopo che la sinistra politica si è messa ad inseguire le fanfaluche del mercato, della competizione, dell’impresa. (S.L.L.)
Saltimbanchi di un circo povero |
Quindici milioni di persone «sperimentano il rischio di povertà o di esclusione sociale». Un valore del 23,1% superiore alla media dell'Unione europea.
Per un decennio - dimostra, numeri alla mano, l'Istat - l'Italia ha galleggiato con performance inferiori a quelle di tutti gli altri paesi della Ue, ma negli ultimi due anni non c'è più stato neanche il galleggiamento: il paese è andato a fondo. Non solo economicamente (il Pil ha fatto un balzo all'indietro di 35 trimestri) ma soprattutto socialmente: il 24,7% della popolazione - 15 milioni di persone - «sperimenta il rischio di povertà o di esclusione sociale». Si tratta di un valore del 23,1% superiore alla media Ue. Il rischio emarginazione sociale è conseguenza anche dell'aumento della disoccupazione: nel biennio 2009-2010 oltre 532 mila persone hanno perso il posto. E va peggio per gli immigrati: ogni 100 disoccupati in più, 20 erano stranieri.
L'economia che affonda incide sui fenomeni sociali: nel 2010, gli abbandoni scolastici prematuri sono stati il 18,8% con una punta del 22,0% dei ragazzi contro il 15,4% delle ragazze. L'obiettivo fissato dal piano del governo (15-16%) non appare particolarmente ambizioso e non consente un avvicinamento deciso rispetto agli obiettivi comunitari. E due milioni sono i «Neet 1», i giovani che non hanno un impiego, non studiano e non fanno alcun tipo di pratica professionale o apprendistato. E sono due milioni anche gli scoraggiati, coloro che nel 2010 non hanno più cercato un lavoro, o perché in attesa degli «esiti di passate azioni di ricerca», o più semplicemente perché convinti che non avrebbero trovato alcunché. Infine le donne: su di loro, causa i tagli sempre più profondi, viene scaricato il welfare in dosi massicce, un carico «sempre più insostenibile». E, sempre di più, il loro lavoro fuori casa è dequalificato.
Nelle oltre 400 pagine del «Rapporto annuale» Istat presentato ieri si percepisce una sensazione di impotenza per un paese che sta precipitando, e al tempo stesso di rabbia per la mancanza di una politica economica e sociale - una violenza enorme - che sta distruggendo il tessuto produttivo e soprattutto quello sociale. Sul fronte economico non ci sono molte novità, ma una preziosa opera di puntualizzazione.
«Nel decennio 2001-2010 l'Italia ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i paesi dell'Unione europea». In numeri, quella italiana «è l'economia europea cresciuta di meno nell'intero decennio», con un tasso medio annuo pari allo 0,2%, contro l'1,1% dell'Ue. «Il ritmo di espansione dell'economia è stato inferiore di circa la metà a quello medio europeo nel periodo 2001-2007». Insomma, una «crescita dimezzata» e il divario «si è allargato nel corso della crisi e della ripresa attuale». Nella media dello scorso anno l'economia italiana è cresciuta dell'1,3%, contro l'1,8% dell'Ue. Nel primo trimestre del 2011, in Italia la crescita è stata dello 0,1% e dell'1% in termini tendenziali, mentre nell'Uem la crescita è stata dello 0,8% su base trimestrale e del 2,5% rispetto ai primi tre mesi del 2010. E se ci sono circa 295.000 imprese che sono riuscite a prosperare persino nel biennio della crisi (tra il 2007 e il 2009), con conseguenze positive su occupazione, redditività e competitività, il ritorno ai valori precrisi della produzione appare lontanissimo: l'attività produttiva del settore industriale si colloca su livelli inferiori di oltre il 19% rispetto ai massimi dell'estate 2007, il punto di svolta negativo del ciclo.
La crisi ha prodotto una crescita della disoccupazione: «nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila unità». I più colpiti sono stati i giovani tra i 15 e i 29 anni, fascia d'età in cui si registrano 501 mila occupati in meno; cresce, invece - di 291 mila unità - il numero degli occupati tra gli over 50 che appaiono come l'unica fascia garantita. Drammatico è il quadro della condizione femminile. Si sta assistendo a un peggioramento della qualità del lavoro acompagnato da una crescita della disparità salariale rispetto agli uomini del 20% (30% per le immigrate). La mancanza di protezione sociale delle donne è rappresentata da un dato: 800.000 donne, con l'arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perchè licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere. L'occupazione qualificata, tecnica e operaia, è scesa di 170 mila unitá, mentre è aumentata soprattutto quella non qualificata (+108 mila unità): si tratta soprattutto di «italiane impiegate nei servizi di pulizia a imprese ed enti e di collaboratrici domestiche e assistenti familiari straniere». Ma ciò che su tutto emerge è il ruolo di «ammortizzatore sociale» svolto dalle donne, un carico di cura e assistenza degli altri che si è fatto «insostenibile». Le famiglie che possono per salvaguardare il livello dei consumi, hanno progressivamente eroso il loro tasso di risparmio, «sceso per la prima volta al di sotto di quello delle altre grandi economie dell'eurozona». Lo scorso anno la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata al 9,1%, «il valore più basso dal 1990».
«Il tasso di crescita dell'economia italiana è del tutto insoddisfacente - secondo il presidente dell'Istat - e anche i segnali di recupero congiunturale dei livelli di attività e della domanda di lavoro non sembrano sufficientemente forti e diffusi per riassorbire la disoccupazione e l'inattività, rilanciando redditi e consumi». Risultato: «l'occupazione sta ora crescendo prevalentemente nei servizi a più basso contenuto professionale, a fronte della riduzione del numero delle posizioni più qualificate. Ciò implica, a parità di altre condizioni, un sottoutilizzo del capitale umano, guadagni più bassi, minori prospettive di sviluppo». Il danno peggiore si è prodotto nell'industria (404.000 posti di lavoro persi) e la cassa integrazione che ha fatto in parte da paracadute, ormai è in via di esaurimento: «circa un quarto di quanti erano in Cig nel 2009 lo sono anche un anno dopo; uno su due ritorna al lavoro, ma uno su cinque non è più occupato».
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