1.6.11

La canzone francese dal 700 a oggi. Passaggi. (di Giampiero Cane)

Giampiero Cane, su “alias” del 21 maggio 2011, utilizzando come base un recente libro di Giangilberto Monti ferma l’attenzione su alcuni momenti della storia della canzone francese dal 700 oggi. Riporto una buona parte del suo articolo. (S.L.L.) 

Maledetti francesi!
A dieci anni dalla morte di Charles Trenet e mentre ancora infuria in Francia la battaglia intorno alla sua eredità, nel nostro paese si torna a parlare di canzone francese. In particolare la recente esibizione romana, unica data italiana, di Charles Aznavor ha riacceso interessi e passioni. Andiamo dunque al cuore del genere servendoci anche e soprattutto di Giangilberto Monti e del testo Maledetti francesi (Nda Press, Cerasolo Ausa di Coriano, Rimini, 2010).

La chanson canaille. Canzone e rivoluzione
Qui si parte dal 1700, più esattamente dal 1729, quando un poeta e salumiere Antoine Gallet, assieme ai suoi amici dà vita alla Societé du Caveau; Gallet mette a disposizione un locale dove si mangia, si beve e si canta, e nel quale dovrebbe essere nata la chanson canaille, all'epoca comunque
più goliardica che non realista. Alla fondazione segue lo sprofondamento, cioè il fallimento del povero Gallet, ma alea iacta est e dunque si andrà avanti. Di lui, però, oltre al ricordo nella storia del costume resta ai francesi un ritornello che, mondato di quel di cui parlava realmente (bunga bunga d'allora), divenne un motivetto per bambini che è ancora ricordato.
Verso la fine del secolo, com'è facilmente immaginabile, teatro e canzone di strada, poesia popolare, coreografie mimiche, le grasse risate del vaudeville, convergono nel clima della grande rivoluzione. È così che la chanson prende l'aria del Ça ira, nata nel 1790 (il più famoso canto della Rivoluzione Francese dopo la Marsigliese), un «bras d'honneur» rivolto alla prepotenza dei prepotenti aristocratici per i quali si sta approntando la ghigliottina, strumento veramente adatto a risolvere la questione del colore speciale del loro sangue.
Fatta un po' di pulizia nella società francese, con Napoleone la vita politica s'allontana da Parigi. Nella capitale, nel Rocher de Cancale, s'afferma Pierre-Jean de Béeranger, secondo Goethe un genio, tra i maggiori poeti di Francia per Chateaubriand. Suo è il Roi d'Yvetot che potrebbe essere letta come un'anteprima in previsione della comica dissolutezza del Papi di Arcore. Come scrive Monti «la canzone fa il giro dei salotti intellettuali ma si canta anche nelle strade e nei bistrot, e il suo re imbelle, attorniato da ruffiani e ragazze facili, diventa una macchietta senza tempo». Anzi un maestro forse per il giovane entertainer, appunto il futuro Papi di Arcore, che chissà non l'abbia ascoltata e magari cantata nella sua rampante gioventù. Essa racconta che quel Re «non ingrandì per nulla i suoi stati/ Fu un vicino comodo/ E, modello dei potenti/ Prese il piacere per codice».
Come satira non è granché (il dovere d'ingrandire il territorio non esiste più, sostituito da quello d'incrementare il patrimonio privato), ma questa vena, che vien dal Machiavelli rivelatoci da Foscolo e va al Re Pausole ed a Ubu Roi, è nutrimento civile contro il beota sanremo, zombie tanto quanto e come l'Orchestra Italiana e le cartoline con l'albero di quinta, lì vicino e il Vesuvio sul fondo, con in mezzo una Napoli dove non si vede ombra di pattume, degrado umano, mini e maxidelinquenza (un po' come a Milano).
Mi si scusi il capriccio, ma stiamo entrando nell'epoca di Rossini, di Offenbach e del can can, nell’epoca delle barricate, della Comune, delle insurrezioni civili, quando nasce l'Internazionale,
un testo letterario di Eugène Edine Pottier (1816-1887) che sembra sia stato cantato sull'aria della Marsigliese prima che un musicista belga gli approntasse l'aria in uso. È anche l'epoca in cui viene riscoperto François Villon di cui da un quattro secoli s'eran lasciate perdere le tracce. È una buona fonte d'ispirazione per la chanson canaille.

Gli albori della modernità
È comune il giudizio che Aristide Bruant sia da considerare all'origine della chanson moderna. Chi fu costui? La sua immagine è nota a molti: da dietro, di tre quarti, ma con la faccia girata mostra il profilo, gran sciarpa intorno al collo, in parte a nascondergli il mento, cappellaccio scuro a tese larghe e mantello altrettanto scuro addosso, mano sinistra inguantata che tiene un bastone, da passeggio certo, ma venato e un po' troppo grosso - così ce lo mostra Henri Toulouse-Lautrec in un manifesto pubblicitario di Le Mirliton, il nome che Bruant diede allo Chat Noir dopo averlo rilevato. Ma prima che cambiasse proprietà e gestione, quando ancora era il Gatto Nero, proprietà di Rudolf Salis (un gran tirchio parrebbe, stando a Bruant), qui suonerà nel corso dell'ultimo decennio dell'ottocento Eric Satie, il cui gusto non coincide però con quello dello chansonnier, ragion per cui, non essendovi traccia di qualcosa che sia passato da Bruant a Satie o viceversa, e non potendosi dire che Satie sentisse l'influenza della nuova chanson, anche se sogghignava sul bonapartismo da salotto, ciò fa sì che egli non entri in questa storia.
La quale del resto sta ormai entrando nel secolo scorso, che è quello che conduce a nomi che non pochi ancora ricordano e che comunque segna il momento di maggiore fulgore della chanson, prima
dell'americanizzazione del gusto, americanizzato in seguito ai massicci investimenti Usa nel settore dello spettacolo e, quindi, della globalizzazione nella jam universale e delle esclusive specialità McDonald's.
Il nuovo costume, quello in cui riconosciamo, e non solo nelle canzoni, le maniere del Novecento si palesa dopo la prima guerra mondiale. Nel nostro campo, in Francia ha il nome di Mistinguett, ma è un'immagine lontana, quanto per noi quella di Wanda Osiris. All'apparenza sono personaggi tra il comico e il patetico tanto che se personalmente fossimo chiamati a dire un merito della donna che scendeva le scale (la Wanda) non potremmo che ricordare che con lei debuttò Tognazzi, che son ricordi, fossero anche solo di racconti, che denunciano provenienze fin dalla prima metà del secolo andato.
Charles Trenet
Charles Trenet e Edith Piaf
Girato un foglio di calendario, abbiamo Charles Trenet, col quale la chanson si veste di modernità. Forse qualcuno comincerà a pensare che queste storie sono piene di inizi. È così perché così vuole la moda….
L'arte di Trenet è affatto bastarda. Prende da Chevalier, da Artaud, da Max Jacob, mischia il valse musette con i primi cenni dello swing, ha un po' di tango alle spalle. E il blues e il tango insieme sono una grande lezione di resistenza contro malinconia e depressione. Inoltre non sono motori che «spingono» le coppie dei ballerini ma seducenti fantasmi che avvolgono e trascinano. Sono portamenti ritmici un po' sfibranti, che impongono al passo momenti di esitazione, simulata è ovvio. Il contraltare del valse musette che non dà tregua al suo dolce motore e trascina in un trascorrere che esso stesso brucia. Lasciarsene rapire vuol dire innamorarsi e perdersi.
Di Charles Trenet si potrebbe anche dire che fu il più grande, che aveva un gesto leggero e spensierato come quello di Maurice Chevalier, anche se e quando non cantava canzoni spensierate: lo spettacolo deve procedere e se implica tristezza, dolore e fin violenza, l'attore mostra questi sentimenti senza sentirli, ché è altro quel che cerca nella finzione con cui seduce. Di lui si può anche dire che chez nous è poco conosciuto, che la sua popolarità è assai minore della sua qualità. Questo non solo oggi che la memoria non sa andare indietro oltre i 10 minuti, ma anche negli anni passati, anche mezzo secolo fa.
Di lui rimane, è da credere Douce France, forse Que reste-t-il de nos amour, ma pochi, pochissimi, anche se le conoscono, saprebbero dirne l'autore, anche se la prima nacque a Berlino (terra nazi in quel 1943), dove Trenet, come anche Édith Piaf e Chevalier, era andato a cantare per i francesi là deportati. La cosa non era piaciuta alla Francia dei resistenti, ma nemmeno ai nazisti: i primi quasi giudicarono collaborazionismo quello di Trenet, i secondi all'opposto vi lessero nostalgie patriottiche per la Francia degli anni bui, cioè, dal loro punto di vista, gli anteriori alla sua emancipazione dal pensiero negli slogan hitleriani (anni azzurro verdi d'antan, mica Berlusconi e Bossi).
Anche se qui occorre andare un po' di corsa, prima d'approdare al dopoguerra s'impone una fermata per Édith Piaf, la cui vita fu narrata in un film, La Môme, che in Italia ebbe il titolo del suo più gran successo, La via en rose. «Quando ci si deve barcamenare tra miserie e prostituzione fin dai primi anni di vita, c'è poco da scegliere», scrive Monti. Una vita da film, «perché quel fragile mucchietto di ossa con gli occhietti febbrili, la fronte bombata e il suo metro e quarantasette d'altezza, sul palco scardinava ogni regola dello show-business».
Boris Vian
Boris Vian e Juliette Greco, la schiuma dell’esistenzialismo
Dopo la guerra i due geni musicali della musica pop francese sono Juliette Gréco e Boris Vian. Vengono dalla schiuma dell'esistenzialismo, cioè sono coinvolti con quel che la parola ha significato nella cultura popolare.
L'esistenzialismo è un indirizzo filosofico che, detto in soldoni, viene da Kierkegaard, Rosenzweig
e, in parte Schopenhauer. Tra i problemi che si pone, ha in evidenza quello di risolvere la tensione umana che, immersa nell'istinto e irrazionalità, dovrebbe riuscire a dare un senso alla vita….
Nel dare vita a un costume, si prese anche un po' in giro: atteggiamento sfibrato, noia di vivere, rifiuto dell'entusiasmo, indifferenza, vediamo gli esistenzialisti del cinema nostrano in Totò principe di Capri, in Totò all'inferno, dove però quell'artato vivere sottotono è contraddetto dalla fisicità che sprigiona dal comico napoletano.
Se Juliette Gréco poteva anche diventare uno stereotipo di se stessa, a Boris Vian questo non era possibile. Egli era un creativo assai più variegato; frenetico e attratto da mille cose, da una gran varietà di occupazioni. Fu ingegnere, giallista, trombettista legato allo swing un po' revivalistico, scrittore di noir, commediografo e sceneggiatore, odiò l'ipocrisia borghese, il razzismo palese e occulto della società francese. Una profonda e furente ira percorre le pagine del romanzo Andrò a sputare sulle vostre tombe che provocò scandalo e portò Vian in aula giudiziaria. Le sue canzoni, quasi 500, hanno grande varietà tematica, sono satiriche, ma anche sentimentali, paradossali e rabbiose, ma anche generose.
Juliette Gréco è stata la diva della rive gauche; era una provinciale avvenente, studiò teatro e arte drammatica, cominciando a farsi notare nel 1947. Due anni dopo è al Boeuf sur le Toit e ad ascoltarne le canzoni c'è un pubblico che è l'élite culturale della Parigi d'allora, con Sartre, Beauvoir, Cazalis, Cocteau, Camus e Marlon Brando.Col cinema ebbe a che fare molte volte, ma indirettamente anche quando Miles Davis fu a Parigi per la colonna sonora di Ascensore per il patibolo. Lui e la Gréco avevano una storia sentimentale, lui viveva da lei ed è Juliette che ci racconta come forse sia una leggenda che la splendida musica per il film nascesse in sala di proiezione, nel caso anche di registrazione. Il racconto di lei ce lo mostra infatti al lavoro sulla carta pentagrammata nei giorni precedenti, fino alla vigilia, intento a riempirli di note.

Canzone e poesia
Un aspetto straordinario della canzone francese è la sua relazione con la poesia, il fatto che spesso è stata composta musica per versi pre-esistenti, come se da noi fosse successo che qualche autore pop scrivesse su parola di Quasimodo, Ungaretti, Saba riuscendo a portare al successo coi loro versi la propria musica.
Jean Cocteau era spesso sulle scene della rive gauche, protagonista di serate col suo genio polimorfo; Léo Ferré cantava i versi di Aragon e Reynaldo Hahn, l'amico di Proust, quelli di Verlaine, cui si dedicò anche Damia. Charles Trenet cantava Max Jacob, ma non è che lui abbia bisogno della grandezza altrui: è uno scrittore vero, magari di fase seconda, ma giunge a veder pubblicati sul Mercure de France, diretto da Paul Leautaud, sue poesie e racconti. La parte del lavoro di Jacques Prevert dedicata alla canzone non ha solo il nome di Les feuilles mortes, per la musica dell'ungherese Joseph Kosma, ma sono decine i suoi titoli per Yves Montand, il quale, comunque canta anche canzoni di Queneau, Sartre e della Sagan.
Gli chansonnier francesi hanno fatto scuola ai cantautori italiani. Già negli anni ’50 quelli, in Francia, uniscono l'autore del testo della musica e l'interprete in una persona sola, ma lo fanno in maniera che di qua delle Alpi nessuno saprà eguagliare.
Secondo Giangilberto Monti ciò si deve al fatto che i cantautori nostrani hanno limitate capacità espressive per la loro scarsa preparazione scenica. Questo si vedrà anche in molti titoli cinematografici giacché in Francia i cantanti avranno parti d'attore in film che non saranno stati tagliati su misura per loro o per una delle loro canzoni, come avveniva invece coi «musicarelli» nostrani. Inoltre è da considerare che fra Trenet e Dylan c'è forse un abisso e che i cantautori sono stati comunemente più influenzati dai predicozzi del cantante Usa che non dal folletto francese.
Ancora nel 1963, George Brassens viene pubblicato nei Poètes d'aujourd'hui. Da noi, per leggere i testi delle canzoni dei cantautori bisogna rivolgersi a un'editoria secondaria, di genere. Ma così sta avvenendo anche in Francia perché da maudits si diventa, come insegna Gainsburg, compositori alla moda.

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