In “Tuttolibri” in edicola con “La Stampa” sabato 19 settembre 2009 uscì un’intervista di Giorgio Boatti con Mario Lodi, maestro elementare, uno dei protagonisti, con Albino Bernardini, don Milani, Gianni Rodari e molti altri della straordinaria stagione di rinnovamento democratico della pedagogia e della scuola negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. L’intervista, costruita secondo uno schema che lega le esperienze vitali e professionali alle letture, ai libri “importanti”, è a mio modo di vedere assai bella. Trovo molto pertinente il riferimento a Pinocchio, l’idea che in quel capolavoro scappato di penna al conservatore Lorenzini ci siano tante indicazioni sul tempo politico e culturale che stiamo vivendo. Mi sembrano buone ragioni per riproporre quasi integralmente il testo, a due anni di distanza. (S.L.L.)
Alla Drizzona, la bella cascina presso Piadena dove da un ventennio Mario Lodi guida le attività della «Casa delle Arti e del Gioco» da lui fondata, l'ultima calura dell'estate arretra davanti ai porticati ariosi. L'autore di decine di libri per ragazzi - a cominciare dall'indimenticabile Cipì - è ancora sulla breccia con lo stesso entusiasmo di quando, anticipando di una manciata di anni la Lettera a una professoressa di Don Milani, con il suo C'è speranza se questo accade al Vho (1963) cominciò a riflettere sulle sue esperienze di maestro elementare.
Di lì a poco, con Il paese sbagliato (1970), e non pochi altri saggi e variegate iniziative, compreso un giornale per bambini, divenne il simbolo del rinnovamento da operare dentro la scuola dell'obbligo. Un impegno che in Lodi non si è mai attenuato. Nato nel 1922, diplomato maestro nel 1940, di mutamenti ne ha visti tanti ma ora, davanti agli interventi che, impongono il maestro unico prevalente, riducono gli insegnamenti opzionali e altre attività che hanno sorretto la scuola del tempo pieno di cui è stato uno dei pionieri, osserva sgomento. E respinge deciso ogni proposta di classi inizialmente separate per gli alunni extracomunitari: «I bambini, quando arrivano a scuola, non sanno scrivere ma sanno tutti parlare, nelle loro diverse lingue. E la parola è la ricchezza immensa che non va chiusa in ghetti ma educata al dialogo. Solo così il bambino, come auspica la nostra Costituzione, diventa il cittadino del futuro…».
Lodi porta dritto dritto i suoi 87 anni e, se gli si chiede di ricordare i primi libri che gli arrivarono sotto gli occhi, non ha dubbi: «Sono nato proprio nell'anno della Marcia su Roma e uno dei primi libri che mi diedero da leggere a scuola, e che mi si è stampato nella memoria, raccontava le avventure del balilla Vittorio».
Era quello scritto da Roberto Forges Davanzati?
«Sì, stampato dalla Libreria di Stato, era una sorta di Cuore trapiantato dentro le liturgie del Regime. Seguendo le vicende quotidiane di Vittorio tutti gli scolari italiani di quinta venivano coinvolti nei passi fondamentali dell'edificazione mussoliniana. Erano con lui alle grandi adunate, festeggiavano il Natale di Roma, partecipavano alla Befana fascista. E andavano a vedere i lavori di bonifica nell'Agro pontino...».
Per fronteggiare lo zelo del Balilla Vittorio servivano robusti antidoti. Chi li ha riforniti?
«Mio padre, operaio di simpatie socialiste. Portava a casa romanzi che appartenevano alla tradizione popolare. Con personaggi che mi insegnavano cosa era la vita e come starci da uomini giusti. Mi colpiva il Remi vagabondo e curioso delineato da Hector Malot in Senza famiglia. Oppure l'affollato palcoscenico de I miserabili. Un libro che si è così inciso nel mio cuore, tanto che ho chiamato Cosetta mia figlia, proprio come la ragazzina che trova in Jean Valjean un padre giusto e coraggioso…».
I libri come antidoto alla propaganda di regime. E poi?
«Nel contesto, molto semplice e popolare, in cui viveva la mia famiglia i libri trovavano un forte apprezzamento. La padrona della fabbrica dove lavorava mio padre per Natale, ai figli dei dipendenti regalava libri. Testi diventati per me significativi: ricordo ancora un'edizione del Tartarino di Tarascona di Daudet. Mi aveva conquistato almeno quanto le pagine del Corrierino dei Piccoli che cercavo, ogni settimana, di non perdere. Ero già alle medie quando su “Topolino” dell'editore Nerbini, che poi editerà “L'avventuroso”, fu pubblicato il primo fumetto delle avventure africane di Cino e Franco, due ragazzotti che l'autore, un americano, catapultava in un'improbabilissima giungla. Un successo strepitoso…».
Poi con le superiori e l'inizio dell'insegnamento saranno arrivate le letture più impegnative…
«Paradossalmente un segno meno rilevante mi è stato lasciato dai libri importanti, dai classici che alle Magistrali ci dicevano di leggere. Certo fui colpito da un brano di Tolstoj che parlava della scuola avviata nella sua tenuta per i figli dei contadini. Ma rispetto alla pedagogia, al rapporto col bambino, a scuola trasmettevano solo nozioni e mai messe in discussione. Col Rousseau de L'Emilio e, ancora di più, con le intuizioni pedagogiche di Maria Montessori o il "metodo naturale" di Célestin Freinet, ho fatto i conti più avanti, sul lavoro. Tra i banchi delle mie classi che erano sempre in scuolette di questa mia campagna cremonese, sperdute e tuttavia investite più che mai dai cambiamenti in atto nel Paese. Dall'emigrazione per esempio che portava qui dal Veneto e dal Meridione schiere di lavoratori che si avvicinavano ai centri industriali ma non potevano permettersi di abitare in città…».
Lì cominciarono le esperienze del testo libero, del calcolo vivente, della pittura come libera espressione del bambino?
«Sì. I giornali di scuola, le inchieste condotte dai bambini raccontate in C'è speranza se questo accade al Vho. Appena prima dell'uscita di Lettera a una professoressa un amico giornalista, Giorgio Pecorini, mi aveva portato a Barbiana. Voleva che Don Milani e io ci conoscessimo. E per due giorni, su nel Mugello, fui tempestato dalle domande di don Lorenzo: voleva sapere tutto, ma proprio tutto, su come lavoravo in classe…».
Intanto i diari del lavoro compiuto con i suoi ragazzi nel corso dei diversi anni scolastici confluivano in un altro suo testo: come nasce «Il paese sbagliato»?
«Lo avevo fatto leggere nella sua prima stesura a Gianni Rodari che aveva suggerito a Giulio Einaudi di pubblicarlo subito. Eravamo tra il 1969 e il 1970. Ricordo che Einaudi è venuto qua da me, a Piadena, con le bozze de Il paese sbagliato e mi ha dato ventiquattro ore di tempo per tagliare cento pagine, così da alleggerire il tutto. Ventiquattro ore, perché stava andando a Colorno dove Basaglia, che era appena arrivato da Gorizia per dirigervi il manicomio, doveva consegnargli un suo nuovo libro che doveva uscire contemporaneamente al mio. Penso fosse La maggioranza deviante scritto con la Franca Ongaro. Comunque quando Einaudi ha rimesso piede qui io avevo finito il mio lavoro di riduzione del testo. Dopo la pubblicazione, iniziò un impegno di convegni, conferenze, viaggi durato anni...».
Continuato anche dopo che ha concluso l'insegnamento…
«Certo, un'attività di seminari, laboratori, incontri che continuano qui alla "Casa delle Arti e del Gioco" che ho costituito nel 1989 con i proventi del Premio Internazionale Lego che avevo appena vinto. Un impegno che ha investito anche il tema, affrontato in alcuni miei libri, del rapporto dei bambini con la televisione. Non ho mai condiviso alcuna demonizzazione verso la Tv, sin da quando l'ho vista la prima volta dietro la vetrina dell'elettricista di Piadena. Ma piuttosto l'urgenza di farne capire le opportunità e i rischi…».
Dunque prefigurando un futuro che adesso è arrivato...
«Per la verità è un futuro che stava già dentro uno dei libri che ho amato di più, il Pinocchio di Collodi. Lì c'è già tutto sul tragitto che porta il burattino a diventare bambino o viceversa. Quando il cittadino diventa un burattino manovrato dagli altri. E sui Mangiafuoco, o il Gatto e la Volpe che ci vogliono convincere che c'è un campo dove nella notte crescono gli zecchini d'oro, c'è qualcosa da aggiungere rispetto a quanto scriveva Collodi?».
E qualche libro ancora che spieghi come girare le spalle al Paese dei Balocchi e tornare a scuola, dai buoni maestri…
«Allora bisogna leggere Ultimo banco. Per una scuola che non produca scarti. Lo ha scritto Sandro Lagomarsini, un prete che da trent'anni a Cassègo, un borgo sperduto dell'Appennino ligure, ha aperto un doposcuola sulle orme di Don Milani. E' stato pubblicato adesso dalla stessa Libreria Editrice Fiorentina che aveva fatto uscire il libro del priore di Barbiana. E poi c'è un altro libro ancora che mi è piaciuto. E' L'uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. Parla di come un uomo solo - con alberi piantati pazientemente l'un dopo l'altro per anni, e seguiti con cura - possa far rivivere una vallata brulla…».
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