Di Eric Auerbach, l’autore di Mimesis, una delle opere più fascinose e profonde della critica del Novecento, e il rinnovatore degli studi danteschi attraverso l’interpretazione figurale è uscito un volume di testi sparsi, sicuramente allettante per gli insegnanti, Romanticismo e realismo e altri saggi su Dante, Vico e l’Illuminismo (Edizioni della Normale, pp.XXV-222, € 30,00), che propone, per la prima volta in italiano, saggi e brevi recensioni di Auerbach usciti tra il 1924 e il 1953, a cura di Riccardo Castellana e Christian Rivoletti. Forse la penuria economica mi obbligherà a vincere la tentazione dell’acquisto che mi ha stimolato la bella recensione dal titolo Stile e Storia per ragionare trovata su “Alias” del 18 giugno 2011 e firmata da Mario Mancini. Ne riporto alcuni stralci: vi si citano giudizi e intuizioni che eccitano a riletture e a verifiche, primo fra tutti quello su Stendhal. (S.L.L.)
Eric Auerbach |
Questo Romanticismo e realismo di Auerbach… ci consente di entrare nel suo atelier, di assistere alla prima formulazione di alcune decisive categorie – quotidiano, mescolanza degli stili, interpretazione figurale –, di arricchire con nuovi materiali la nostra conoscenza del suo discorso critico…
Nei primi tre saggi della raccolta – Romanticismo e realismo (1933), Sull’imitazione seria del quotidiano (1937), Il realismo in Europa nel XIX secolo (1942) – troviamo la prima individuazione della categoria di «realismo», come «imitazione seria del quotidiano», come «demolizione della
dottrina antica e classicistica e della sua concezione della dignità umana», come «mescolanza degli stili», che costituiranno, sia pure in modo mobilissino e ricco di nuances, il filo rosso di Mimesis.
Ma c’è anche una prospettiva diversa. Viene messo in luce, soprattutto nel primo saggio, il forte legame sotterraneo tra i grandi scrittori realisti dell’Ottocento e la rivoluzione, stilistica ma anche psicologica e sociale, dello Sturm und Drang e del Romanticismo. Questa «ricerca della realtà autentica del flusso della vita», che si afferma con slancio alla fine del Settecento, accomuna i grandi realisti, Stendhal, Balzac, Flaubert. Diversissimi, certo, nelle particolarità del loro mondo e del loro stile. La cifra di Stendhal: «il disprezzo per la quotidianità che ritrae», «una superiore arguzia e libertà dello spirito, come divin imprévu», «il suo edonismo, la sua inclinazione alla filosofia ideologica». Balzac: «Come la magia demonizza la natura, Balzac svela il demonico nella vita sociale dell’uomo moderno». Flaubert, in contrasto: «Qualsiasi demonizzazione della società è bandita; la vita cessa di ardere e schiumare: scorre lenta e ostinata. Lo scrittore non desume la vera essenza del quotidiano da turbolenti gesti e passioni, bensì da una contingenza dilatata, il cui incedere è quasi impercettibile, ma onnipotente e indefesso, tanto da conferire un’apparenza di relativa stabilità al retroscena politico, economico e sociale dell’insieme, che resta tuttavia oppresso da tensioni intollerabili».
La grande riflessione sul «realismo» coinvolge anche la conferenza Aspetti del pensiero di Dante (1948): «L’aldilà non mostra solo la pervasività e l’ubiquità dell’ordine divino e della gerarchia universale, ma anche la perfezione e la piena autorealizzazione dell’essere umano. Il giudizio di Dio è in ogni caso identico alla piena autorealizzazione dell’individuo da lui giudicato»…
Questi i nodi teorici di rilievo, che si distendono in pagine di finissima analisi stilistica, dove la storia e lo stile sono tutt’uno. Stendhal, come i suoi eroi, è caratterizzato nel segno dell’idealità e del calcolo: «quella particolare commistione di segreta idealità e capacità di entusiasmarsi da una parte e di freddo e diabolico calcolo dall’altra». Flaubert: i personaggi – il discorso riguarda sempre Madame Bovary – «sono privi di un mondo condiviso, che potrebbe sorgere, infatti, solo se in molti trovassero la via d’accesso alla propria autentica, personalissima realtà». In questo mondo non accade nulla, ma quel nulla è pesante, opaco, minaccioso: «è un tempo saturo, schiacciato da un’ottusità senza sbocco».
Le pagine più intense, più tese, più drammatiche sono quelle dei saggi Voltaire e la mentalità borghese (1947) e Montesquieu e l’ideale di libertà (1945). Sono pagine fortemente politiche.
L’idea voltairiana della morale si basa sull’utilitarismo, sul lavoro, sull’interesse. È il trionfo del buon senso borghese, condito di «una rabbia e di un rancore inesauribili». Dobbiamo dimenticare il Voltaire del processo Calas, il combattente pugnace e vittorioso contro gli abusi della giustizia, contro la pratica della tortura, il Voltaire dell’antisuperstizione, dalla verve teatrale, veloce, travolgente, comicamente irresistibile, che affascinava Starobinski e Calvino, il Voltaire delle
nostre letture. Compare qui un Voltaire molto particolare, e molto parziale …: «Voltaire sa bene come disporre la luce al fine di oscurare o illuminare le strade necessarie per ordinare astutamente gli eventi e conseguire il suo obiettivo in modo che ciò non venga percepito dal suo nemico. In questo modo mostra di saper mentire dicendo la verità, ovvero dicendo solo quella parte di verità che risulta più conveniente, e di saper alterare la relazione tra i vari elementi che producono la verità».
La figura di Montesquieu viene vista nel quadro dell’opposizione all’assolutismo e soprattutto dell’elaborazione di una teoria politica che ha come centro, con la separazione dei poteri dello stato, la salvaguardia delle istituzioni democratiche e della libertà dei cittadini. È molto significativo il confronto tra l’idea di sovranità popolare di Rousseau, molto più «radicale» ma suscettibile anche di derive totalitarie, e il costituzionalismo di Montesquieu:«La libertà relativamente limitata che vuole dare agli uomini, intende darla come un bene sicuro e costante e completamente difeso da un forte sistema legale». Auerbach cita parola per parola, con evidente emozione, un famoso passaggio del sesto capitolo dell’undicesimo libro dell’Esprit des lois: «Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati». L’Auerbach che rende omaggio al «genio morale e legale» di Montesquieu è l’uomo che ha visto la crisi della Repubblica di Weimar e l’ascesa al potere di Hitler. E che riflette, insieme a noi – perché anche nel 2011 c’è chi attacca furiosamente i giudici – sulla politica e sulla democrazia.
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