8.6.11

Quando tutto fa profitto. Un quorum per salvare l'acqua... e molto altro (di Fabio Mariottini)

Dallo speciale acqua di "micropolis" di maggio 2011, riprendo gran parte dell'articolo introduttivo, di Fabio Mariottini. (S.L.L.) 
Panicale 1888 - Donne a lavare i panni sul torrente Trezza
Quando l’incubo finirà (ma quando?) saremo costretti a riconoscere ai governi Berlusconi il pregio di essere riusciti a fare chiarezza sulle molte ambiguità che contraddistinguono il nostro paese. E che, con l’andare del tempo e gli aggiustamenti bipartisan, hanno reso peggiore la nostra vita quotidiana. E’ avvenuto con i condoni edilizi, con i premi per chi ha evaso il fisco portando i soldi all’estero, con le depenalizzazioni dei reati contro l’ambiente.
Con il decreto legge 135 del settembre 2009 che, di fatto, privatizzava l’acqua, il governo ha però voluto strafare, suscitando così una reazione che ha portato al referendum del 12 e 13 giugno. Il pretesto per l’emanazione del decreto, firmato dall’allora ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi e approvato  dal Parlamento tra l’entusiasmo della maggioranza e la tiepida resistenza dell’opposizione, era l’esigenza di ottemperare “agli obblighi comunitari”; lo scopo vero, al netto delle sofisticherie, era l’affidamento obbligatorio del servizio idrico, tramite una gara di evidenza pubblica, ai privati.
Questo provvedimento aveva due finalità: mercificare per legge un bene insostituibile per la vita come l’acqua e, contemporaneamente, assestare il colpo definitivo all’idea di gestione pubblica e quindi democratica di una parte della nostra esistenza. A guardare bene, però, questo atto non faceva altro che ufficializzare ciò che già da tempo stava accadendo in Italia. E precisamente dal 1994, quando fu approvata la cosiddetta legge “Galli” che, partendo dalla legittima esigenza di semplificare il pletorico sistema delle gestioni degli acquedotti, con l’introduzione del concetto di sistema idrico integrato comprensivo anche di fognature e depurazione, apriva di fatto la strada all’ingresso dei privati nel grande business dell’acqua. La legge, infatti, stabiliva la divisione del paese in Ato (Ambiti territoriali ottimali) ai quali spettava individuare un unico gestore che poteva essere una società a capitale pubblico, misto, oppure privato.
Il cuore del provvedimento, però, era racchiuso nella bolletta  e in  modo particolare nell’articolo 13,  secondo il quale “La tariffa è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio.”  Queste poche righe erano sufficienti a trasformare un bene comune in una merce che deve produrre profitto.
“Quindi anni dopo la legge Galli – scrivono Claudio Jampaglia ed Emilio Molinari (Salvare l’acqua, Serie Bianca Feltrinelli) – gli investimenti nazionali in infrastrutture idriche si sono più che dimezzati (da 2 miliardi di euro annui nel 1986-1995 a soli 700 milioni tra il1996 e il 2005), in compenso la tariffa nel periodo 1998-2008 è aumentata in media del 66 per cento.”  Il decreto Ronchi, quindi, come novità prospettava effetti punitivi per i Comuni che si ostinano ancora considerare l’acqua come un bene non negoziabile (la maggioranza), obbligandoli alla presenza di un socio privato, ma, di fatto, ratifica una situazione già preesistente di privatizzazioni, salutate da destra e da sinistra, come “modernizzazioni”. A Milano sono quotate in borsa 9 società che si occupano di gestione del servizio idrico e a Roma l’acqua è arrivata in Borsa già nel 1999 durante la gestione Rutelli. La Toscana poi, con Arezzo che affida per venticinque anni alla società Lyonnaise des Eaux la distribuzione dell’acqua, diventa un esempio di grande “lungimiranza” per tutta la penisola. Un esempio, certo, ma di come in pochi anni si possano raggiungere i vertici della classifica per le tariffe e i minimi storici per gli investimenti. L’emiliana Hera, società mista pubblico-privato, è un altro esempio di come, pur facendo profitti con la bolletta, si possa poi non investire in fognature e depuratori.
In Umbria i tre  Ato hanno fatto scelte diverse: Perugia e Terni con una gestione mista pubblico-privato e Foligno con una gestione in house. Dei risultati ci occupiamo in queste pagine, ma da tutti gli esempi appare evidente come l’idea stessa di servizio pubblico non si possa conciliare con l’esigenza di produrre profitti. Con buona pace di chi pensa (a destra) che il mercato abbia in sé proprietà taumaturgiche e di coloro che (a sinistra) credono che tutto sia negoziabile, purché esistano buone regole per gestirlo.
Oltretutto questa visione del mondo, rivelatasi poi fallimentare, è in netta controtendenza rispetto al resto d’Europa che, dopo la stagione delle grandi privatizzazioni, sta tornando al pubblico: su tutti il caso di Parigi, dove, dopo venticinque anni di gestione Veolia-Suez, il servizio verrà nuovamente municipalizzato. In Italia i referendum non godono dei favori del pronostico (non si raggiunge il quorum dal 1997), ma il clamoroso risultato della consultazione che si è tenuta qualche giorno fa in Sardegna contro l’installazione di centrali atomiche sull’isola (60% dei votanti e 97% dei si) può rappresentare un buon viatico per l’appuntamento di giugno...     

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