Sono rimasto incredulo di fronte all'enorme importanza data nei giorni scorsi a una insignificante canzoncina di Celentano. Si tratta di un pezzo del lontano '72, il cui titolo insensato era prisencolinensinainciusol, che ricordavo, naturalmente, ma che ricordavo soprattutto per la bravura nei movimenti snodati del suo autore e cantante, il quale viene ora fatto passare per un geniale innovatore. Tutto questo soprattutto perché, ignorando la lingua inglese, aveva deciso di fingerla, cioè di cantare parole insensate che in qualche modo la orecchiassero. Spiritoso, anche, non c'è dubbio. Furbissimo, sicuramente.
Ma in fondo, che cosa c'era di nuovo in quell'idea? Niente o quasi. Nel dopoguerra, i ragazzi che non conoscevano l'inglese, ma avevano ascoltato dischi americani, facevano spessissimo quello che fa Celentano in quel pezzo di 37 anni fa. Tra l'altro, qualcosa del genere troviamo anche in un noto romanzo di Pier Paolo Pasolini, Il sogno di una cosa, scritto tra il 1949 e il 1950 e pubblicato nel '62. Cito: «E cominciò a cantare la sua canzone di quando beveva: ''Dia bredar, then darling squear, bredar, iu' nou mai ert, tuinghling then...''». Più avanti lo stesso personaggio, Eligio, brandendo una scopa, ricomincia a cantare parole di questo genere «con ritmo di boogie-woogie». Lo stesso Pasolini, d'altra parte, non faceva altro che riprodurre ciò che aveva sentito e visto, come tanti altri, nelle osterie o negli oratori degli anni 40 e 50, e con maggiore autenticità rispetto a Celentano, il quale, in un'intervista a Ernesto Assante, arriva ad affermare: «Decisi che era arrivato il momento di esprimere, non dicendo niente, ciò che ritenevo il più elevato grado di poesia corrispondente al mondo di allora». Grande modestia, va da sé. E non certo per ricordare che tra '71 e '72 non il mondo, ma la semplice Italia, in termini di poesia, aveva prodotto, che so, Satura di Eugenio Montale, Su fondamenti invisibili di Mario Luzi, Viaggio d'inverno di Attilio Bertolucci, Un posto di vacanza di Vittorio Sereni...
Bazzecole, dice con fierezza il nostro mondo del varietà totale, del varietà coordinato e continuativo. Bazzecole, rispetto a un prisencolinensinainciusol.
“La Stampa”, 29 dicembre 2009
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