Recensione del “Meridiano” che quasi dieci anni fa tentò di canonizzare, accanto al Fortini poeta, il Fortini prosatore. Lo scacco dell’operazione nasce da quella irriducibilità di Fortini, che Bonavita efficacemente delinea. (S.L.L.)
Per pubblicizzare l'ingresso dell'opera omnia di Sade nella Plèiade, Gallimard realizzò dei cartelloni in cui gli eleganti volumetti erano coperti da catene di ferro accompagnate dalla scritta: «l'inferno in carta india». Accostamento trasgressivo solo in apparenza ma che, per antitesi, torna in mente scorrendo il «Meridiano» dei Saggi ed epigrammi di Fortini (a cura e con un saggio di Luca Lenzini, introduzione di Rossana Rossanda). Perché qui viene «canonizzato» dall'edizione lussuosa qualcosa che oggi si considera molto più perturbante e osceno dell'illimitato eccesso sadiano: un lungo, sofferto, ostinato invito al comunismo. Se ne sono accorti gli aspiranti tutori dell'ordine simbolico costituito, precipitatisi a ripetere le rituali giaculatorie contro i «cattivi maestri» e i fautori del socialismo reale (che Fortini iniziò a criticare in pubblico almeno fin dal 1949). Non basta che la sua opera, indisponibile al consumo frettoloso e distratto, sia giocoforza destinata a una ristretta cerchia di lettori. Per i nuovi benpensanti è intollerabile anche solo la sua semplice presenza nello spazio pubblico. Lo ha capito perfettamente la Rossanda: «Fortini giace insepolto fuori delle mura E si spiega: ha voluto essere una voce poetica di quella parte del secolo che aveva tentato l'assalto al cielo di un cambiamento del mondo, ha perduto ed è ricaduta fra le maledizioni del Novecento e l'inizio di un millennio che non ne sopporta il ricordo». Lui per primo, congedandosi da amici e nemici, ha riconosciuto e sfidato questa volontà di rimozione: «dimenticatemi, se potete».
Ma «dimenticarlo» non è proprio possibile. Lo scandaloso Fortini è così strettamente intrecciato con la storia - non solo culturale e non solo italiana - del Novecento, che nemmeno una ipotetica distruzione di tutti i suoi scritti potrebbe cancellarlo davvero. Continuerebbe a esistere in negativo, come un buco nero, una forza invisibile ma concreta che ha modificato in profondità il campo gravitazionale del nostro passato. Piaccia o no, tra il '45 e il '94 Fortini ha comunque lasciato un segno non trascurabile nel dibattito culturale e politico, nella mentalità degli intellettuali, nella storia delle riviste, dal «Politecnico» a «Quaderni rossi» (ma anche ad «Arguments» e «Kursbuch»...) e in quella dei quotidiani, dal “manifesto” al “Corriere della sera”, nell'editoria, nella critica letteraria, nelle traiettorie di intellettuali come Vittorini, Cases, Calvino, Mengaldo, nei testi di altri poeti come Pasolini, Giudici, Sereni, Zanzotto, nel nostro modo di leggere tanti degli autori che egli ha tradotto: Eluard, Kierkegaard, Brecht, Simone Weil, Goethe.
Nato come personaggio pubblico dalla Resistenza, proprio come la nostra Repubblica, con il suo itinerario mentale Fortini ha saputo tenere aperta per più di mezzo secolo una possibilità radicalmente altra, rispetto a ogni forma di dominio: possibilità che è stata solo in parte agita in alcune grandi svolte storiche (il '45, il '56, il '68), ma che continua a irritare, accusandoli, i vincitori e i loro eredi. La semplice esistenza della sua protratta eresia denuncia l'arbitrarietà, la non necessità della norma, delle varie «ortodossie» che hanno dominato questi anni. Così come, d'altra parte, la programmatica eccentricità dei suoi risultati migliori - poesia e prosa - mette in crisi, con la sua eccezione permanente, qualsiasi tentativo di esposizione schematica della storia letteraria italiana dalla fine degli anni trenta ai novanta. Un'eresia e una sistematica distanza da opinioni e scritture egemoni che per restare tali hanno dovuto evolversi continuamente, costruendo delle posizioni - teoriche, politiche, stilistiche - spesso escluse dal ventaglio di ciò che di volta in volta appariva dicibile o perfino pensabile. Di qui quei tratti, sempre sottolineati dai detrattori, che a volte risultano irritanti anche agli amici: la postura profetica, le gesticolazioni del predicatore, la violenza polemica che rischia di diventare cieca o intransigente, l'atteggiamento apocalittico. Sono il prezzo che Fortini ha pagato per difendere la propria diversità, ma anche la traccia di una ferita, di una sofferenza molto più profonda di quanto lasci sospettare la dimensione «pubblica» dell'intellettuale Fortini. Ma quanto angoscia e lacerazione del sé facciano da contropartita alla durezza polemica e alla tensione dell'utopia, lo si può leggere, per esempio, nelle pagine di Cani del Sinai in cui vengono rese pubbliche le «ustioni» private e quelle impresse nell'intimo dagli incendi sociali e storici. E anche i suoi più urtanti «saggi-sassata» (la definizione è di Pavese) dipendono da questo andirivieni incessante tra interiorità psichica e condizione storica; «tutto quel che ho potuto fare è stato, giorno dopo giorno e anno dopo anno, di osservare come si richiamassero le une dalle altre, si rispecchiassero e si confondessero nel brusio interiore, detto soggetto, coscienza, le voci dello Ich o dello Es e quelle dell'urlio detto mondo o storia».
Da questa lotta col sé e col tempo emerge uno dei rarissimi esempi di prosa italiana capace sia di proporre continui ribaltamenti dialettici e accensioni metaforiche - sulla scorta degli esempi tedeschi di Hegel, Adomo e Benjamin - sia di inseguire nella storia i dilemmi tragici dell'esistenza, appresi dalla Bibbia, da Michelstaedter e Kierkegaard. Anche per questo la Rossanda nel suo saggio-testimonianza accompagna Fortini lungo una sequenza cronologica, nel suo corpo a corpo con gli anni: per mostrarlo, prima che come autore, come uno stile di intervento - militante ma autocritico - che si trasforma con il mondo a cui si oppone. E anche Lenzini disegna in forma narrativa le premesse, lo sviluppo e le caratteristiche della sua attività di «saggista» sui generis, dando il giusto rilievo all'esigenza di «totalità» e all'escatologia secolarizzata su cui Fortini tara la propria critica, così come cerca di renderla presente nella figuralità dei suoi versi: non è il suo solo merito di curatore. Ha stilato una Cronologia che è già un indispensabile saggio biografico, e soprattutto ha saputo combinare scelta antologica e rispetto delle principali strategie di scrittura, autoselezione e montaggio di Fortini. Il «Meridiano» comprende cinque raccolte d'autore, rappresentative dei principali «modi» e settori d'intervento saggistico e della poesia satirica ed extravagante, oltre che epigrammatica (Verifica dei poteri, Cani del Sinai, Saggi italiani, L'ospite ingrato I e II, Breve secondo Novecento) insieme a un'antologia di Scritti scelti 1938-1994. Si può non essere d'accordo sui dettagli (perché così tanto Fortini «italianista» e «novecentista», anche quando dormicchia?), non sull'intelligenza e la chiarezza della scelta, che fa risaltare la grandissima varietà dei generi e dei temi, in prosa e in verso, praticati, contaminati o reinventati.
Diversamente ha fatto Velio Abati, raccogliendo - senza scegliere - un'enorme massa di interviste, dichiarazioni, interventi e altri pezzi «interlocutòri»: Un dialogo ininterrotto Interviste 1952-1994 (Bollati Boringhieri «Saggi»), da cui spicca soprattutto il Fortini capace di rimettere tutto e tutti in questione, sé stesso per primo, e di rideclinare a ogni sussulto dei tempi la sua esigenza utopica. Tra l'uno e l'altro volume sono quasi tremila pagine, oscene come la verità - intesa nel senso contraddittorio, instabile e in divenire che religione e profezia, dialettica e psicoanalisi le hanno attribuito.
"alias - il manifesto", 17 luglio 2004
"alias - il manifesto", 17 luglio 2004
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