Maschera teatrale romana |
Abbiamo finalmente, in un piccolo forziere cartaceo (Tito Maccio Plauto, Le Commedie. A cura di Carlo Carena, Millenni Einaudi) il tesoro plautino racchiuso nelle pagine di un solo volume. Si va subito stupiti a guardare l'indice, e ci si accorge che le commedie di Plauto, ovviamente le « varroniane », le certamente attribuite, vi sono tutte. Si guarda meglio, presi da vertigine, per aggrapparsi al testo latino, e non lo si trova, ma ci si rassegna, avvedendosi che la qualità della traduzione non vanifica la necessità ma la relega nel limbo delle pretese impossibili, per un'edizione cosi fine pur nella sua mole di tomo che mette in crisi lo spazio degli scaffali.
Il testo latino bisognerà cercarlo nelle edizioni delle singole commedie, o di gruppi di esse nelle collane tradizionali.
Qui v'è un interprete attendibile, e ad esso bisogna affidarsi, confortati dai suoi precedenti - una traduzione di Virgilio e una recentissima della Vita di Agostino - oltre che da questa sua grande fatica, ora a nostra portata di mano, come un oggetto raro e agevolmente fruibile, costato anni di paziente lavoro, crediamo, per qualche giorno di nostro profondo diletto. Carena è un martire della traduzione che giunge alla gloria in virtù del suo altruistico sacrificio e della sua devota umiltà, più che per una presuntuosa competizione con l'originale.
È stata questa paziente dignità, questa frequentazione lustrale, questa disciplina d'interprete letterale (che portarono in passato il Carena a rovesciare il suo tipo di correttezza interpretativa in una spericolata traduzione-calco dell'Eneide, sulle orme di Klossowsky), a permettere un probabile abbordaggio della nave corsara di Plauto, saccheggiatore di tradizioni e repertori letterari, stupratore creativo del linguaggio patrio, irremovibile globe-trotter delle situazioni topiche più sfrenatamente sventagliate in una vitale mimesi della vita quotidiana e abietta.
Come si è detto, il merito maggiore della traduzione è una consapevole rinuncia alla sfida con «il plautino in Plauto», alla contraddizione in termini portata in sé dalle maldestre imitazioni delle invenzioni lessicali, sintattiche, metriche, di cui vive la altrimenti insopportabile, e impossibile, materia plautina.
Plauto è un autore « di frontiera » fra due epoche della letteratura latina: sullo spartiacque, rifiuta di ripiombare nella crassa comicità rustica e plebea dell'arcaismo, ma d'altra parte di allinearsi nei ranghi ordinati, pensosi, raffinatamente urbani del modernismo scipionico con i suoi ben calcolati scavi di una psicologia sommessa, struggente come i drammi sofferti in solitudine o silenziosamente celati.
L'acrobazia di Plauto non è solamente «nativa», ma frutto di una dosata creazione intellettuale; è equilibrio, parlando con Cicerone, tra ingenium e ars, con una impennata di sintesi risolta sempre in ritmo, in musica, sgangherata e carnascialesca talvolta, talaltra singhiozzante e zoppa, avvincente nella sua inarrendevolezza e continua metamorfosi, nella sua capacità di condurre i personaggi ai piedi della platea per farla ridere fino al pianto, e farle scoprire che quel pianto non è un lagrimare per eccesso di ilarità, ma un piangere sulla multiformità della vita, inafferrabile nel suo senso, sempre sfuggente nelle apparenti fissità e banalità delle maschere continuamente inseguite dalla loro stessa bramosia dì « dimenticarsi » di vivere, in virtù di un'orgia di vita.
Lo strumento linguìstico dì Carena è il più adatto per cogliere d'infilata e trasporre in una collana racchiusa dalla cerniera di un modulo di stile le commedie plautine: una lingua «media», che in un certo senso sembrerebbe più appropriata a Terenzio, ma in realtà a Terenzio non sarebbe confacente, se lo si interpreti correttamente per ciò che egli fu nella storia della lingua latina: il rifinitore di una urbanità dimessa, ma levigata, e intimamente trionfale; dunque questa « medianità» meglio si addice a Plauto, proprio per la sua natura di commediografo serrato ma dirompente fra due epoche.
L'impasto linguistico che Carena ha scelto, gli permette di rispettare l'autore ed insieme di trasmetterlo al lettore in una lucida approssimazione, estranea tanto agli arbitrii melensamente mimetici dei traduttori-emuli, quanto alla deprimente fedeltà prosastica delle traduzioni accademiche. Ma un altro merito ha Carena, non minore del primo, anche se più felice della rinuncia continua a quel qualcosa che nella traduzione inevitabilmente sì perde: quello di aver collocato Plauto in una dimensione che sembrerebbe ovvia, che ognuno aveva in animo, ma che nessuno aveva formulato con chiarezza a se stesso: quella di « intermedietà » anche fra
il giudizio dei detrattori moralisti e quello degli apologeti invaghiti esclusivamente del genio della lingua e della metrica.
A conclusione della sua introduzione Carena scrive: «Ma quanto egli (Plauto) subì del suo genere e del suo tempo, quanto concesse per amore del suo pubblico, non ha pregiudicato la finezza del suo lavoro di artista. Questa anzi è il segno della profondità della sua ispirazione, e d'altra parte anche della percettività del pubblico romano... che inondava le gradinate nei giorni di festa per assistere all'insulto dei prepotenti, degli avidi, dei tronfi, soprattutto per incantarsi davanti allo spettacolo della propria vita ricercato nelle sue assurdità e affermato nei suoi valori, in un'utopia assai meno pazza degli Uccelli aristofaneschi ».
Una dimensione esistenziale, accanto a quella burlesca e satirica, che non eravamo avvezzi a considerare in Plauto.
Postilla
Il ritaglio onde ho tratto il post è senza data e senza testata. Risale, probabilmente, ai 1980 ed è inserito in uno di quei giornaletti di "novità" che distribuivano in libreria.
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