16.3.13

Guatemala. Gli indigeni (e il vescovo) contro la diga Enel (Tomaso Clavarino)

Ixiles del Guatemala
Della complessità del rapporto religione-società in America Latina possono trovarsi tante testimonianze. Tonio Dall’Olio, un prete cattolico che è responsabile di Libera Internazionale e dirige – con altri – la Pro Civitate Christiana di Assisi, ci ha raccontato convivialmente molte storie e di segno assai diverso. Questa che qui riprendo viene invece dalla stampa, è recente e tuttora non conclusa: ci racconta di una comunità indigena guatemalteca, gli Ixiles, in lotta per difendere ambiente e dignità contro una società legata all’Enel e di un vescovo che viene addirittura in Italia a difenderne la causa. (S.L.L.)
Il vescovo Alvaro Ramazzini
Una comunità indigena che lotta per la propria terra, una multinazionale che mira a costruire infrastrutture e a generare profitti, una famiglia di latifondisti dal passato quantomeno inquietante. Potrebbero essere i protagonisti di un film hollywoodiano o di una delle tante storie delle quali ci giunge eco dal sud del mondo che poco hanno a che fare con il nostro paese. Invece, questa volta, sono gli attori di una vicenda che riguarda anche l’Italia. Perché la multinazionale in questione è l’Enel, da anni impegnata, tramite Enel Green Power, per il 69,2% di proprietà dell’impresa madre, nella costruzione di centrali per la produzione di energia rinnovabile in giro per il mondo. Anche in Guatemala.
Ed è proprio in Guatemala che va avanti da più di tre anni un braccio di ferro che vede opposte le comunità indigene di San Juan Cotzal, nella regione di Ixil, e l’Enel Green Power, come racconta un rapporto uscito da poco dell’Ong specializzata in risorse naturali, l’italiana Re:Common. L’oggetto della discordia? L’impianto idroelettrico di Palo Viejo, sul fiume Cotzal. Un impianto capace di produrre 370 milioni di kWh all’anno e messo in rete a marzo, che le comunità, discendenti dai Maya, che abitano in questo territorio da oltre 2 mila e cinquecento anni, non vogliono assolutamente e per la realizzazione del quale dicono di non essere mai stati interpellati come espressamente scritto nella costituzione guatemalteca.
Il Guatemala ha ratificato la Convenzione 169 dell’Organizzazione del Lavoro delle Nazioni Unite che riconosce i diritti alla terra dei popoli tribali e specifica che debbano essere consultati prima dell’approvazione di qualsiasi progetto sulle loro terre. L’Enel nega di non aver consultato le popolazioni locali ma dal rapporto di Re:Common emerge che le comunità locali avevano dato parere negativo all’opera nel 2005, salvo poi trovarsi, nel 2008, da un giorno all’altro, le ruspe e i camion sul loro territorio. Il rapporto è frutto di un lavoro di ricerca sul campo, e da una serie di testimonianze tra le quali quella del sindaco di San Juan Cotzal, venuto recentemente in Italia, accompagnato dal vescovo Alvaro Ramazzini, presidente della Conferenza episcopale Guatemalteca, per partecipare all’assemblea degli azionisti dell’Enel. «È l’ennesimo caso di arroganza e prepotenza da parte di una multinazionale, per di più italiana - affermano da Re:Common -. Queste comunità sono sotto il giogo di famiglie di latifondisti che sfruttano i lavoratori e che decidono, pur non avendo alcun titolo per poterlo fare, le sorti di questo territorio». Un territorio nel quale le ferite della guerra civile sono ancora aperte e nel quale regna incontrastata una famiglia di latifondisti: la famiglia Brol. Proprio questa famiglia - nella cui finca, la Finca San Francisco, durante la guerra civile, tra il 1980 e il 1983, secondo la ricostruzione della Commissione per il chiarimento storico (Ceh), furono eseguiti sei massacri con 186 morti - ha siglato un accordo con l’Enel Green Power per la realizzazione dell’opera. Un accordo che prevede, secondo Re:Common, una royalty annuale pari all’8,5% dei ricavi dalla vendita dell’energia.
La comunità, per bocca del vescovo Ramazzini, ha chiesto all`Enel un contributo pari al 20% dei ricavi. Una richiesta giudicata irricevibile dall’Enel: «Se dovessimo devolvere una cifra tale l’impianto risulterebbe totalmente improduttivo». L’Enel sostiene di aver investito milioni di dollari in opere di compensazione, ma le comunità ribadiscono, sempre secondo le testimonianze raccolte da Caterina Amicucci, autrice del report di Re:Common, che non sono sufficienti per compensare tutti i danni provocati al loro territorio. Un esempio? Duecento chilometri a valle dell’impianto idroelettrico vivono dodici comunità Maya-Q’eqchi la cui sussistenza dipende dal fiume. L’acqua del fiume che una volta era cristallina e potabile, dall’inizio dei lavori, come confermato dalle analisi svolte dal Centro di Salute di Ixcan, si è trasformata in una poltiglia marrone.
«I danni ambientali ci sono, anche se non sono catastrofici come in altri casi - continuano da Re:Common -. I veri danni sono a livello sociale, con le comunità indigene che vedono calpestati nuovamente i loro diritti». Le comunità lamentano anche la militarizzazione della zona (nel corso dei lavori di costruzione della centrale molte proteste pacifiche sono state represse dall’esercito) e chiedono la riapertura di un dialogo.
Dall’Enel rispondono che il dialogo non è mai stato negato e che gli accordi presi sono stati rispettati. «Accordi presi con altri forse - chiosano da Re:Common -. Con funzionari corrotti, con latifondisti senza scrupoli, con sindaci delinquenti finiti poi in carcere. Le comunità indigene che vivono da millenni in queste terre e che hanno il diritto di decidere sul futuro di queste aree non hanno avuto, se non in qualche rara occasione, mai voce in capitolo».

“La Stampa”, 15/8/2012

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