16.3.13

Vittorio De Sica, il più attore dei registi (Clotilde Bertoni)

La battuta più nota del Terzo uomo di Reed è inserita nel copione da un Orson Welles presente nel cast come interprete; buona parte della grandezza di Viale del tramonto di Wilder si deve all’Eric von Stroheim che, nel ruolo di un geniale regista del muto distrutto dal sistema hollywoodiano, mette praticamente in scena, con cupo sarcasmo, la sua storia; ovviamente si potrebbe continuare. I registi-attori che non si limitano a ribadire meglio la propria cifra dirigendo se stessi, ma sprigionano potenzialità impensate recitando in film altrui, esercitano sul cinema un’incidenza particolare; magari anche quando lo sprigionamento sconfina nella dispersione, le loro ragioni sono delle più materiali e le loro scelte non delle più oculate.
Forse nessun caso lo dimostra quanto quello di Vittorio De Sica, attore innanzitutto e sempre: negli anni Venti-Trenta nome di punta del teatro leggero e del cinema dei Telefoni bianchi (con pellicole brillanti esplosivamente fantasiose come Tempo massimo di Mattòli o La mazurka di papà di Biàncoli, oppure nutrite di ambizioni realistiche come Gli uomini che mascalzoni…, Il signor Max e I grandi magazzini di Camerini); poi, dopo l’affermazione come regista, poco incline a comparire nei film suoi, ma spinto invece da motivi finanziari a collezionare una filmografia di interprete follemente eterogenea, in cui Il generale della Rovere di Rossellini si affianca a Totò, Vittorio e la dottoressa di Mastrocinque, polpettoni insipidi come Caroline Chérie di La Patellière si avvicendano ai Gioielli di Madame de… di Ophüls, commedie sfavillanti di Blasetti, Comencini e Monicelli sono seguite a ruota da gemmazioni fiacchissime (peraltro non di rado opera di quei registi stessi), che nei titoli – Vacanze a Ischia, Vacanze d’inverno – sembrano a volte sinistramente anticipare, sebbene la qualità sia comunque ben diversa, i cinepanettoni oggi di un altro De Sica regno incontrastato.
Ma questo accumulo, facilmente liquidato come smaccato tradimento del grande lavoro di regista, fornisce invece a quel lavoro un contrappunto e un alimento straordinario, sia in quanto registrazione penetrante dell’antropologia e delle vicissitudini italiane, sia in quanto efficace mezzo di scavo nel senso stesso della recitazione: come ora dimostra a fondo lo studio solidissimo e avvincente di Anna Masecchia, Vittorio De Sica. Storia di un attore (Kaplan, pp. 260, E 20,00), che, facendo leva su una vasta bibliografia e inoltre su scrupolose ricerche d’archivio, sa tanto esplorare nei dettagli la cinquantennale attività presa in esame, quanto individuarne e indagarne le linee principali.
Innanzitutto, il libro rileva che questa attività così ramificata è in effetti saldata da robuste costanti. Ad esempio, l’estro dell’improvvisazione affinato da De Sica nel teatro di varietà (con la leggendaria compagnia Za-Bum), e le esibizioni canore, gli sketch sbrigliati dei suoi primi film, costituiscono, contro le apparenze, un retroterra decisivo dei suoi capolavori neorealisti: perché soprattutto da lì proviene la sua famosa capacità di orchestrare forme di recitazione più spontanee, di provocare il pubblico, di dirigere interpreti non professionisti. Inoltre, tutte le sue fasi di attore (che spesso lo vedono anche collaborare alle sceneggiature) intercettano, in modi vari, voghe, umori e inquietudini delle corrispondenti fasi storiche: le assunzioni di identità fasulle e i vagheggiamenti di esistenze alternative dei giovani del Signor Max o dei Grandi magazzini indicano surrettiziamente il disagio che cova nella soffocante atmosfera del regime; il disorientato onorevole di Roma città libera di Pagliero, e gli insegnanti integri e perdenti del Cuore di Coletti e del Buongiorno, elefante! di Franciolini (impasto di affilata denunzia e umorismo surreale tipico dello sceneggiatore principale, lo Zavattini a lungo alter ego di De Sica) illustrano il miscuglio di ideali fervidi e perdurante smarrimento che contrassegna il dopoguerra; la frotta di carabinieri, legulei e politici, fintamente autorevoli e più o meno inaffidabili, incarnati negli anni Cinquanta e oltre, mette poi in risalto l’inceppamento degli ideali, il trasformismo e il qualunquismo in agguato, le lacerazioni e i compromessi che vanno segnando la ricostruzione.
Però, come Masecchia sottolinea acutamente, De Sica, grazie alla sua eclettica formazione teatrale, riesce ben più di altri mattatori dell’epoca (a partire da quello che un po’ si vuole suo erede, Sordi), a non cristallizzare i suoi personaggi nella fissità di tipi invariabili, da un lato dotandoli, mediante l’arte dell’immedesimazione appresa da Tatiana Pavlova, di una specifica individualità, dall’altro avvolgendoli, attraverso le strategie di distanziamento ironico assorbite da Sergio Tofano, in una luce burlesca e straniante (non a caso notata e apprezzata da Brecht). Irripetibili perciò, quanto ricche di chiaroscuri, numerose sue figure: il truffatore spavaldo di Peccato che sia una canaglia e quello tormentato e ravveduto del Generale della Rovere; il sindaco oscillante tra idealismo e opportunismo di Amore e chiacchiere e quello sbruffone e sgradevole del Vigile; e, beninteso, il maresciallo sorrentino della tetralogia Pane, amore e, incarnazione della fede nelle istituzioni quanto delle loro riconversioni disinvolte («Ho servito il re, il duce e il presidente della Repubblica»), campione tanto di una calda umanità quanto di un istrionismo smodato, che si fondono in rivendicazioni di onestà («Io songo n’ommo ’e cristallo!») insieme sostanzialmente attendibili e sommamente grottesche.
Inoltre, come sempre Masecchia segnala, l’ironia si spinge all’autoironia, la deformazione umoristica riservata alle proprie creazioni si estende a quella della propria statura di divo: soprattutto quando i personaggi interpretati sono attori, oppure figure professionali, come gli avvocati e i politici, agli attori facilmente assimilabili; e la messinscena della contemporaneità si fa così esplicitamente messinscena dell’arte dello spettacolo, del suo potere di sostituire o manipolare la realtà, di confermare l’autorità o di sovvertirla. Tra i migliori esempi la scena del poco noto Cameriera bella presenza di Pàstina in cui De Sica, nei panni di un capocomico, sentendo la protagonista esaltare commossa la maternità, la invita a ripetere «la battuta»; o la scena, ben più celebre, di Altri tempi di Blasetti, in cui, nel ruolo di uno scalcinato principe del foro, riesce a fare assolvere una Gina Lollobrigida imputata, giustificabile ma colpevole, travolgendo i vincoli della legge e della logica a colpi di funambolismi retorici; o ancora, nell’Oro di Napoli di cui è anche regista, la teatralità, conforme ai rituali aristocratici, della partita a carte che impone a un bambino del popolo nelle vesti di un conte incallito giocatore (altra sua parte ricorrente, nata da un altro rimando autoderisorio, quello all’ossessione origine dei suoi problemi economici): seguita, in un successivo episodio dello stesso film, da una teatralità di segno opposto, quella liberatoria dello sberleffo che un Eduardo De Filippo maestro di saggezza insegna alla gente dei vicoli, come forma migliore di ribellione alle umiliazioni loro inflitte da un altro nobiluomo.
La rappresentazione dei mutamenti e disfunzioni della propria epoca, e delle risorse e ambivalenze del proprio mestiere, che il De Sica attore porta avanti, resta sempre in bilico tra una programmatica leggerezza e una consapevolezza intensa, che si va progressivamente venando di una malinconia evidente in alcune delle sue apparizioni finali. È pervasa di malinconia, ad esempio, una delle sue ultime interpretazioni significative (tra le poche non analizzate da Masecchia), quella estremamente sobria – dopo tanti ruoli sopra le righe e tanti personaggi di avvocati ribaldi – del coraggioso magistrato che nel Delitto Matteotti di Vancini tiene strenuamente e inutilmente testa al fascismo; e di malinconia si vela a tratti il suo affabile sorriso nel filmato di una conferenza tenuta non molto prima della scomparsa (e inserita nel film di Scola che gli rende uno struggente omaggio, C’eravamo tanto amati): testimonianza conclusiva del suo lungo e accidentato, tanto brioso e tanto sofferto, inseguimento della realtà, del suo modo personale di prendere sempre sul serio le cose senza mai prendere troppo sul serio se stesso.

“alias – il manifesto”, 9 marzo 2013

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