Da un più ampio articolo dal "manifesto" riprendo la prima parte, rievocazione di un momento di crisi del sistema culturale e artistico e individuazione del "tema" che lo percorre attraverso due vicende esemplari. (S.L.L.)
Il 3 agosto 1893 Gauguin approdava a Marsiglia. Veniva da Tahiti dove si era recato due anni prima alla ricerca di un luogo felice, un approdo dove ritrovare l'età dell'oro in contrapposizione all'Europa, dominata dal denaro e dall'avidità.
Ma dell'ansia utopistica del maestro restava l'aspetto penosamente paradossale: allo sbarco aveva con sé solo quattro franchi. Li usò per telegrafare a un amico e chiedergli aiuto.
Pochi anni dopo un altro emblematico fallimento confermava uno stato di sofferto disagio, cui qualunque artista desideroso di uscire dal proprio ambito sembrava destinato. Ma questa volta con un esito ben più tragico e, in un certo senso, definitivo.
Il 14 giugno 1907 Giuseppe Pellizza si suicida nel suo studio, a Volpedo. La storia di questo artista ha una singolare vicinanza con quella di Gauguin. Entrambi ritengono di identificare, ad un certo punto della loro carriera, uno spazio e una funzione in cui realizzare l'attività artistica, non più derivanti dall'educazione ricevuta ma anzi vertiginosamente lontani. La ricerca di una uscita di sicurezza in cui l'arte potesse assumere di nuovo quella importanza determinante persa nel proprio ambiente di appartenenza. Le scelte dei due artisti furono analoghe nelle motivazioni di fondo ma opposte nei contenuti. Gauguin ritenne che la pittura dovesse cambiare linguaggio, anche letteralmente, tanto che i suoi quadri ‘parlano’ in senso proprio ma in lingua tahitiana.
Volle immergersi in un ambiente che non sapeva nulla della storia europea; la sua fu una ipotesi di rigenerazione etica che respingeva la storia.
Il fallimento tuttavia era implicito nelle premesse. Gauguin non potè cambiare una lingua sedimentata in lui.
Pellizza voleva invece l'opposto: fare un'arte che riflettesse la realtà della storia sociale italiana, dal punto di vista delle classi subalterne. I suoi tahitiani sono i lavoratori, gli umili, e con questi volle identificarsi, anche sul piano esistenziale. Era nato nel borgo di Volpedo, figlio di agricoltori proprietari.
Poco più che ventenne, dopo una formazione accademica di alto livello, era rimasto impressionato dai grandi rivolgimenti sociali dell'ultimo decennio dell'Ottocento e aveva deciso di diventare artista popolare nel senso più profondo fino a inglobare il nome del suo paese nel proprio: sarebbe stato ricordato come Pellizza da Volpedo.
Scelse di vivere in quel luogo, sposò una contadina del posto.
Avvertì, come pochi altri nel suo tempo, l'urgenza della rappresentazione di quelle folle di lavoratori cui tanti pittori e scultori prima di lui si erano accostati, nell'ottica di un coinvolgimento della funzione artistica nelle tematiche reali della vita sociale. Lunghissima fu l'elaborazione del Quarto Stato, l'opera che emblematicamente apriva il nuovo secolo (fu compiuta nel 1901) e da cui il maestro si aspettava un altissimo trionfo.
Invece fu un disastro. Il pittore la presentò nell'Esposizione di Torino del 1902 e il solo Giovanni Cena tributò un sincero apprezzamento.
L'anno dopo Pellizza scrivendo a P.L. Occhini (come ha rammentato Maria Mimita Lamberti) constata il fallimento dell'arte sociale: «ho assai tema dei soggetti in cui entra la sociologia e peggio la politica; perché oltre che l'arte parmi possa escirne menomata essi invecchiano col volgere di poco tempo».
Gli ultimi quattro anni non potrebbero essere più tipici. Pellizza decide di tornare al paesaggio, tema assai meno pericoloso. Nel 1904 dipinge il Sole (oggi a Roma, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea), poi va a Roma, nel 1907 muore.
Due anni dopo comincia il Futurismo.
Nel confronto tra il Quarto stato e i dipinti dei cosiddetti Stati d'animo che Boccioni esegue nel 1911, nel momento di massima tensione del movimento futurista, è contenuta larga parte di una problematica artistica che la sconfitta di Gauguin e di Pellizza può permettere di comprendere.
E’ un contrasto che attraversa molti aspetti dell'arte ottocentesca e culmina in un singolare concetto che sempre più esplicitamente occupa il dibattito estetico sul finire del secolo: quello della inattualità, dell’essere o del sentirsi non ancora o non più consoni alla propria epoca.
"il manifesto", 11 maggio 1986
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