25.3.13

Libertà a mano armata. Silvia Ronchey su un pamphlet di Luciano Canfora

Una lettura del bel pamphlet di Canfora, il quale per i tipi di Sellerio aveva negli anni Novanta del secolo scorso un librettino aureo (nonostante la copertina grigio-perla) dal titolo più secco, La libertà. Non condivido l’entusiasmo della Ronchey per la propensione di Canfora per la Realpolitik, un po’ assolutizzante e perciò discutibile, ma l’informazione sulle tematiche affrontate dallo storico e antichista mi pare chiara ed efficace. (S.L.L.)

Giuseppe Mazzini
Dai Greci a Robespierre, da Mazzini a Putin e Bush: una critica delle guerre «per la democrazia».
«Secondo Croce la libertà non ha storia: Croce derideva l'idea di Constant, di una libertà degli antichi diversa da quella dei moderni. La democrazia si può tentare di definirla; la libertà, neanche ci si prova». Così Luciano Canfora chiarisce, all'uscita del suo Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (Mondadori, 2007), come questo pamphlet, seguito ideale della sua Critica della retorica democratica, critichi una retorica ancora più sfuggente, perché legata a una parola «brandita ormai da tutti - osserva l'autore -, ma con una fondamentale ambiguità oltre che ipocrisia». Se gli si domanda qual è la libertà non retorica, non quella usata dall' «intermittente, ancorché sempre sacro, furore degli esportatori di libertà», ma quella vera, Canfora cita anzitutto Mazzini: «La libertà come insieme di doveri oltre che di diritti, dove i doveri hanno più ampio spazio: l'autodisciplina di tutti, ossia la massima delle utopie». E poi, addirittura quella del canto iniziale del Purgatorio, la libertà che Dante «va cercando» e che ci conduce a un groviglio di vincoli etici, religiosi, teologici: una visione, quella autentica cristiana, «fortemente limitativa rispetto alla libertà come autarkeia troppo spesso esaltata da un libertarismo che negli Anni 70 ha accomunato destra e sinistra, dagli slogan sessantottini agli striscioni missini di ispirazione cilena inneggianti a «patria e libertà».

IERI ROMA, OGGI GLI STATI UNITI
Se vogliamo capire invece qual è la libertà della cui promessa si e' fatto un uso tanto pretestuoso quanto catastrofico lungo la storia degli imperialismi, occorre per Canfora notare anzitutto che vi confluiscono e vi si sovrappongono di continuo due concetti distinti: la «libertà da un dominio esterno» e la «libertà come costume politico interno». Nel mondo antico, spiega Canfora, la confusione tra i due piani era costante: il nucleo della libertà del popolo romano, ad esempio, non stava tanto nel voto quanto nel non permettere di «limitare il popolo romano». Il che si traduceva nel non avere mai una posizione subalterna rispetto ad altre potenze: era «libertà di prevalere, e di avere nei Paesi satelliti un interlocutore privilegiato cui veniva concessa una libertà interna artificiosa e nominale». In questo senso, è molto vicina alla libertà romana quella americana: «Pensiamo - sorride Canfora - a quanto non solo la propaganda ma l'opinione politica abbia esaltato quelle uniche elezioni in Iraq, il cui esito e' stato una palese costruzione politico-militare: reso noto in anticipo rispetto allo spoglio, poi ritrattato, per ricontrattarne la spartizione a tavolino e creare un Parlamento meno sbilanciato» . Naturalmente, un Parlamento cui le vantate «libere elezioni» avevano contribuito ben poco.
Il pensiero dell'autore, in questo lucido e spregiudicato pamphlet, sembra coincidere con quello del Robespierre ancora, come lo definisce Canfora, «centrista» nei due discorsi antigirondini da cui proviene il titolo del libro. Tenendoli tra la fine del 1791 e l'inizio del 1792, Robespierre si manifestava assolutamente contrario alla guerra, «che sempre atterrisce la libertà», ma soprattutto alla pretesa o illusione girondina che «la libertà potesse essere esportata». «L'idea pià stravagante che possa nascere nella testa di un politico», diceva l'Incorruttibile, «è credere che sia sufficiente entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le proprie leggi e la propria costituzione». E aggiungeva: «Voler dare la libertà ad altre nazioni prima di averla conquistata noi stessi significa garantire insieme la schiavitù nostra e quella del mondo intero».

LO STORICO PREVALE SULL'IDEOLOGO
Una frase da incidere nel marmo. Se sondiamo Canfora sulla sua attualità, la prospettiva dello storico prevale sulla tentazione dell'ideologo. Sottolinea che il suo antenato allude ai progressi ancora da fare nella Rivoluzione, che siamo ancora sotto la monarchia e che peraltro alla repubblica Robespierre arriverà lentamente e da una posizione possibilista; che Robespierre non è un estremista e che solo il tradimento del re lo porterà ad appoggiare l'opzione repubblicana. Ma il transfert è evidente quando, alla domanda su quale sia la libertà di Robespierre, Canfora risponde: «Liberta' dal dominio sociale delle classi forti», in una lettura dell'operato giacobino come sostanzialmente concentrato sulla questione economica e sociale, sui diritti dei contadini, il calmiere dei prezzi, il limite all'arricchimento. In realtà, la frase di Robespierre si può condividere e attualizzare, oggi, se è vero che all'empito di «esportare la libertà» si alterna l'anelito a «esportare la democrazia», dando a torto per scontato che quest'ultima esista davvero e sia mai stata applicata non solo nel mondo antico, ma anche negli odierni regimi oligarchici che si rifanno a quel nome.

STUDIARE LA PROPAGANDA
Attenzione, però. Il pamphlet di Canfora non è certo quello di un moralista, ma di un assertore della «sacrosanta politica», non ignaro, anzi molto consapevole dell'essenza realpolitica e geopolitica di ogni atto si incida nella storia. L'atto politico, come anche Croce ricorda nello scritto del '45 posto in exergo al libro, fa parte dei distinti dello spirito: «Nessun tribunale può giudicarlo e la coscienza morale non può né approvarlo né riprovarlo, appunto perché, come atto politico, non ammette altro contrasto e altro rimedio che politico». E' serena, anche se apparentemente provocatoria, la valutazione che Canfora dà di quel vicino frangente della nostra storia in cui l'esportazione della libertà in effetti è avvenuta per la maggior parte dei popoli coinvolti, tra cui lo storico annovera quelli finiti oltrecortina. Ma ciò non significa che anche qui, nel mito della liberazione postbellica, non si eserciti l'autorappresentazione della politica, la propaganda, che e' poi da sempre l'oggetto dello studio di Canfora, che si occupi di Tucidide o di Gentile: «E' una parola alla quale non va dato un significato negativo, come non lo diamo, ad esempio, alla congregazione di Propaganda Fide. Ma va studiata, perché mobilita i viventi, che pensano, si appassionano, si schierano».
Sulla seconda guerra mondiale, Canfora invita a evitare «i giudizi sommari, l'idea di una guerra del bene contro il male in cui il bene vinse e si trasmise ai paesi soggiogati. Se la analizzassimo con lo stesso occhio distaccato con cui guardiamo la guerra del Peloponneso, ci accorgeremmo intanto che, come questa, non fu una guerra sola, né andò in un solo senso, né ebbe un solo scopo, ma tanti quanti i contendenti: per l'America, che senza Pearl Harbor non sarebbe mai entrata nel conflitto, lo scopo era la conquista del Pacifico, per l'Urss un altro, per l'Inghilterra un altro ancora. Così come potremmo applicare il parallelismo con il conflitto Sparta-Atene all'intera costruzione postbellica del '45-'89: un'operazione di controllo degli alleati-sudditi simile alla symmachia ateniese». La storia è fatta dai rapporti fra potenze, e non è forse un caso che le stesse aree del mondo facciano alla fine sempre la stessa politica: «La Russia che poi cambia nome e infine lo riprende segue oggi in sostanza, con Putin, la politica di Stalin».

"Tuttolibri - La Stampa", 24 febbraio 2007 

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