Povera Agnese! — Mando
così un sospiro alla creatura dei miei passati dì, e torno
lentamente a casa, pensoso e tutto pieno di questa giornata...
Dirimpetto al mio balcone
era un balconcino sul quale gli studenti gittavano furtivi sguardi.
Assorto negli studi, non me n’ero avvisto; poi, guardai anch’io.
Avevo preso l’abitudine di gittar per via occhiate alle donne,
senza malizia, perché il mio spirito era altrove. In Napoli c’è
spesso un saettio di occhiate fra balcone e balcone: cattiva
abitudine anche questa. Ciò si chiama uno «spassatiempo», un modo
di passare il tempo. La donna era per me non so che vicino alla
Divinità, troppo lontana da quelle ombre femminili che mi
rasentavano il fianco per via. Il mio intelletto, profondato negli
studi, era rimasto involuto, e non c’era entrata la malizia.
Guardai a quel
balconcino, e vidi una signorina vestita con semplicità non priva di
gusto, un po’ magrolina con due occhi che parlavano. Ero così
timido che non osavo guardarla fiso in faccia, e la guardavo con la
coda dell’occhio. Ella stava lì come una esposizione, e si faceva
guardare. Talora la guardavo per di sopra a un libro che avevo in
mano. Anche passeggiando e ripensando la mia lezione, gli occhi
scappavano verso il balconcino. Sembrava che ella sapesse tutte le
mie ore, perché, affacciandomi, la trovavo sempre lì,e tirava
occhiate di fuoco, mentre io voltavo le spalle per non farmi
scorgere. Ma quando di lontano vedeva venire zio Peppe, la scappava
subito: quella figura erculea e fiera le faceva paura.
Così continuarono le
cose per parecchi mesi. Io non ci pensavo che quando ero al balcone.
Tutti i giorni si somigliavano: non si andava innanzi né indietro.
Vedevo che la mi faceva di gran gesti; ma non ne capivo nulla. Talora
si ritirava dentro, e alzava la voce e pestava dei piedi; io guardavo
intontito: mi pareva una matta. Un sabato, dopo pranzo, che zio Peppe
era sortito per non so quale faccenda, mi vedo volare sulla testa un
involto di carta. Lo raccatto, lo spiego, ci trovo una letterina
profumata, e vi era scritto così: — Domani, a vent’ore sarò a
San Martino. Verrai? — Rimasi trasognato. Voltavo e rivoltavo
quella carta, e guardavo al balcone, e non c’era nessuno. Credo che
la dovesse star da un canto, e farsi le grasse risa della mia
dabbenaggine.
Il dì appresso zio Peppe
era andato a dir messa, e io, fattomi al balcone, vidi lei un po’
indietro, e mi vidi piovere sopra un secondo involto. Lo afferrai per
aria, e vi trovai scritta la stessa canzone, e sentivo di là dentro
venire una voce che pareva fosse l’eco, e diceva: — Verrai?
verrai? — Io presi subito una carta e ci scrissi sopra: Si —; ma
vidi ch’era troppo leggiera e sarebbe cascata giù. Presi un
cartone e ve la inviluppai dentro, e con un filo la legai bene, e la
lanciai di gran forza, che pareva volessi sfondare il muro. Ella apri
con avidità, credendo trovare un letterone, e come vide quel sì
asciutto, alzò il muso, in aria di disappunto...
da La giovinezza,
a cura di Luigi Russo, Firenze, Le Monnier, 1941
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