Su Sebastiano Timpanaro
c'è già, in questo blog, un mio scritto per “micropolis” in occasione della sua
morte. Posto e posterò nelle settimane
avvenire testi suoi o scritti sulla sua figura che ne illuminino la
ricca e complessa fisionomia.
Questo necrologio di
Maurizio Bettini, da “Repubblica”, molto bello, ricorda
soprattutto lo studioso; ma il titolo aiuta a definirne anche la
visione politica, l'inattualità che la caratterizza rispetto al
secolo in cui visse. Il cosiddetto “secolo breve” non si è
concluso – come si suol dire – con l'Ottantanove
controrivoluzionario, ma con il successivo trionfo del verbo e delle
pratiche neoliberiste che hanno moltiplicato le disuguaglianze
sociali e con esse le sofferenze patite dall'umanità ad opera degli
uomini. Dopo è venuto il tempo della disperazione sociale e della
nuova barbarie, dei conflitti di religione, della guerra di tutti
contro tutti, del terrore.
La sconfitta senza
appello del comunismo stalinista e della socialdemocrazia
inevitabilmente riporta gli appassionati dell'uguaglianza ai maestri
dell'Ottocento, ai primordi del socialismo e del comunismo. Ma non dovremo
abbandonare, nella nostra ricerca di maestri, gli inattuali e gli
sconfitti del Novecento.
Ce ne sono di buoni. Per fermarsi agli italiani si
può cominciare da Matteotti (quasi sconosciuto nel suo pensiero) e
da Gramsci (apprezzato più all'estero che in patria), spesso
ricordati soltanto come martiri e non di rado travisati. E poi ci sono anche Aldo Capitini e Sebastiano Timpanaro, Mario Mineo e Leonardo
Sciascia, Franco Fortini e Raniero Panzieri. (S.L.L.)
Imparai a conoscere il
suo nome da un ringraziamento. «Nell'ultimo stadio del lavoro»,
scriveva l'autore, «abbiamo avuto l'assistenza di Sebastiano
Timpanaro. Chi lo conosce sa che cosa ciò voglia dire». Il libro lo
aveva scritto Eduard Fraenkel, uno dei più grandi fra i filologi
classici tedeschi. «Chi lo conosce», diceva dunque Fraenkel, e la
frase suonava quasi come un invito.
Ma come si poteva fare a
conoscere Timpanaro, lo studioso spentosi alcuni giorni fa? Per
intanto bastava ascoltare. Si raccontava che portasse lo stesso nome
di suo padre, Sebastiano Timpanaro senior, storico della scienza e
appassionato raccoglitore di disegni; che sua madre fosse Maria
Timpanaro Cardini, nota specialista di filosofia antica; che avesse
studiato filologia classica con Giorgio Pasquali, il maestro dei
migliori; che fosse dotato di un'intelligenza lucidissima, ma anche
affetto da una fragilità nervosa che gli aveva impedito l'accesso
all'insegnamento; che la sua straordinaria cultura gli permettesse di
passare dalla filologia classica (quella più "dura") alla
linguistica, dalla letteratura italiana dell'Ottocento alla storia
degli studi classici, al materialismo, la sua filosofia. Ma il punto
di maggior stupore, nel racconto, giungeva quando qualcuno ti
indicava finalmente il luogo dove si poteva andare a conoscere
Sebastiano Timpanaro. La Nuova Italia di Firenze, la casa editrice in
cui il grande studioso faceva il correttore di bozze.
Che io ricordi non
conosceva, o quasi, l' uso del «lei», anche con i più giovani. Non
era solo un modo per rimarcare la sua non appartenenza all'accademia,
il fatto è che per Timpanaro l'uguaglianza era una cosa seria.
Chiunque studiasse era già un suo "collega". Aveva
un'estrema fiducia nella ragione, anche linguistica, per cui parlava
come scriveva: parole semplici, sintassi regolata, orrore per tutto
ciò che definiva «civetteria» (categoria che sostanzialmente
ricopriva l'intero armamentario dell'intellettuale medio, dalle
citazioni allusive all'uso di termini alla moda). Il giorno in cui
qualcuno pubblicherà il suo epistolario, che risulterà peraltro
vastissimo, leggendo le sue lettere sembrerà di riascoltare la sua
voce.
Ma in qualsiasi modo si
esprimesse, Timpanaro aveva prima di tutto una grande capacità di
mettere ordine. Del resto i suoi primi lavori di filologo (pubblicati
a partire dalla metà degli anni ' 40) erano stati rivolti a un testo
per l'appunto da riordinare, i frammenti del poeta latino Quinto
Ennio. E alla filologia classica Timpanaro ha dedicato nel tempo
studi di eccezionale acutezza, poi raccolti in due grossi volumi il
cui titolo proprio per la sua naturale semplicità dice già tutto, o
quasi, della personalità dell'autore: Contributi di Filologia e
di Storia della Lingua Latina. E se i filologi classici non
possono a tutt'oggi fare a meno neppure del suo La genesi del
metodo del Lachmann, vera e propria archeologia della scienza
criticotestuale (ma questa definizione non gli sarebbe piaciuta,
perché «civettuola»), certo gli italianisti non potranno
dimenticare La filologia di Giacomo Leopardi o Classicismo
e illuminismo nell' Ottocento italiano. Sono studi che hanno
modificato profondamente la percezione del nostro Ottocento, e di
Leopardi in particolare.
Timpanaro è uno dei
pochi studiosi che si continua ad avere in comune nonostante il
proliferare delle cosiddette specializzazioni. Intere generazioni di
cultori delle scienze umane hanno imparato da lui, qualunque fosse la
loro disciplina. Comunque essere giovani, con Timpanaro, non era
sempre facile. O più esattamente, con lui non era facile essere
contemporanei. La discussione era continua. Della cultura del
Novecento, infatti, o perlomeno di quella che si era venuta
affermando fra gli anni Sessanta e Settanta, non gli piaceva quasi
nulla. Alla psicoanalisi riservava poca stima, tant'è vero che
dedicò un intero libro a dimostrare che il lapsus freudiano
non esisteva: un buon filologo poteva spiegare altrimenti tutti i
casi analizzati da Freud, l'inconscio non c'entrava. Ancor meno stima
ebbe dello strutturalismo in generale e di Claude Lévi-Strauss in
particolare, così come nessun interesse riservava alla semiotica o,
nell'ambito del mondo classico, allo «strutturalismo mitologico» di
Jean Pierre Vernant. In linguistica, poi, era piuttosto ostile a
Saussure, alla scuola di Praga, a Roman Jakobson, insomma a tutti
quegli studiosi "nuovi" che in Italia continuavano a
suscitare interesse anche negli anni Settanta. Certe sue drastiche
affermazioni in proposito avevano provocato la reazione di due suoi
amici, Giulio Lepschy e Tullio De Mauro, reazione a cui
dobbiamo un altro noto saggio di Timpanaro, Lo strutturalismo e i
suoi successori.
Timpanaro non era di
quelli che criticavano senza aver letto il saggio lo dimostra ancora
in modo impressionante ma non era neppure di quelli che cambiano idea
facilmente. E quando, in anni molto più recenti, pubblicò da
Garzanti una sua magistrale edizione con commento del De
divinatione di Cicerone, restammo colpiti non solo dal giudizio
sostanzialmente negativo che egli manteneva su Vernant e la sua
«scuola», come la definiva; ma anche dal fatto che le
interpretazioni dei termini divinatori latini da lui riproposte erano
ancora quelle dei grandi linguisti tedeschi dell'Ottocento.
È morto in un momento in
cui i giornali erano in sciopero, per cui possiamo ricordarlo solo in
ritardo. E questo, per chi credesse nei simboli dunque non certo per
lui potrebbe avere un significato per l'appunto simbolico. Timpanaro
era infatti un uomo estraneo ai ritmi e alle occasioni della cultura
organizzata, i ritmi se li dava da solo, con la sua fedeltà a ciò
che riteneva giusto. Non aveva alcun timore di contrastare il
cosiddetto spirito del tempo, anzi, il contrasto lo cercava. Credo
fosse per questo che aveva riproposto all' attenzione (o alla
disattenzione) generale il De divinatione di Cicerone, un'
opera "illuminista" che già duemila anni fa si prendeva
gioco di profezie, miracoli ed eventi soprannaturali. Esattamente
quelli a cui la nostra età contemporanea dedica invece interi
scaffali di libreria, sotto la dicitura «Età nuova», e film
televisivi che celebrano i miracoli di Padre Pio.
Rimpiangeremo Timpanaro
non solo per tutto quello che ci ha insegnato, ma anche per il suo
coraggio di essere inattuale.
“la Repubblica”, 5
dicembre 2000
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