La sinistra che
conosciamo e morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la
vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con
elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra
rappresentativa [...] è fuori scena. Non sono una opposizione e una
alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno
raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle
politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità
nel quadro internazionale e interno.
L’ultimo articolo
scritto per il “manifesto” poche settimane prima della morte,
avvenuta il 17 maggio 2003, non lascia dubbi sull’utilità di
ricordare Luigi Pintor a dieci anni dalla sua scomparsa. Al di là
della “profezia”, la distanza trascorsa consente di valutare più
approfonditamente i diversi aspetti di una figura ricca e complessa,
la cui importanza per la sinistra italiana del dopoguerra è pari
solo alla scontrosa riservatezza del personaggio.
Un primo elemento, che la
citazione iniziale è sufficiente a richiamare, è l’eccellenza del
Pintor giornalista: nei suoi corsivi la precisione del giudizio
politico è tutt’uno con la scabra nitidezza dello stile. La
capacità di sintesi di Pintor è proverbiale, e certo essa risaltava
ancor più negli anni ‘70, quando la politicizzazione di una
generazione assumeva forme torrenziali. Rispetto a tanti voli
pindarici, la pignoleria di Pintor (uno degli elementi del presunto
snobismo del “manifesto”) regge anche a grandi distanze, e basti
a conferma questo esempio del marzo 1973, a proposito dell’istituendo
finanziamento pubblico ai partiti: Se il compagno Cossutta fosse
un predicatore, avrebbe indotto al peccato anche Maria Goretti. I
suoi argomenti raggiungono infatti un risultato diametralmente
opposto a quello sperato. Ieri, invadendo tre colonne di giornale per
spiegare la bontà del finanziamento statale dei partiti, è riuscito
a disegnare un quadro brillantissimo del patto scellerato e della
distorsione politica e ideale che è alla base di questa operazione
storico-monetaria voluta da Fanfani, fondata da Piccoli, gradita ad
Almirante.
Nei quattro libri usciti
da Bollati Boringhieri tra il 1991 e il 2003 (Servabo, La
signora Kirchgessner, Il nespolo, I luoghi del delitto)
la stessa severa concisione di stile si applica ad una riflessione
autobiografica che non cede mai alla tentazione dell’aggiustamento
a posteriori, della composizione di un percorso in qualche modo
lineare.
Siamo distanti anni luce
dalle autobiografie politiche. Del resto la lunga militanza di Pintor
ha alla base uno sforzo di volontà che è ricorrentemente sottoposto
al dubbio di inutilità, al possibile scacco Senza la guerra -
scrive in Servabo -
il mio carattere mi avrebbe tenuto certamente lontano dalla vita
pubblica. Non volevo diventare re o papa [...] Per spirito di
contraddizione preferivo i perdenti [...] Ma dubito che si possa
dedurre da questi buoni sentimenti un’indole rivoluzionaria.
Anche in molti articoli
dell’ultimo periodo il “fastidio per la politica” sembra
adombrare il rimpianto per un qualche altro percorso di vita.
Sbaglieremmo però a considerare il ruolo di Pintor prescindendo
dalla politica, quasi che questa dimensione fosse una zavorra da cui
liberarsi a piacere; un approccio simile ispira certe letture che
vedono in Gramsci un grande intellettuale “prigioniero” della
politica.
Pintor è un grande
scrittore e giornalista non malgrado, ma in virtù della militanza
comunista, che è stata anche un veicolo formidabile dell’incontro
tra ceti intellettuali e masse popolari. Che alla base della scelta
ci sia il dolore personale (il lascito del fratello Giaime), non fa
che confermare caratteristiche proprie di quella storia, che fu
grande e terribile come il secolo in cui si manifestò. Pintor vi si
colloca da comunista, con la sua ironia tagliente e insieme dolente,
segno di una “passione disperata” che lo avvicina, oltre che a
Gramsci, al Leopardi delle Operette morali.
“micropolis”, maggio
2013
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