Non so se quella Bustina
di Minerva sia mai stata raccolta in volume, ma non mi pare.
Raccontava una passeggiata per Manhattan, durante la quale aveva
visto avanzare verso di lui una faccia sicuramente familiare. Sapeva
di conoscere quell’uomo ma proprio non riusciva a ricostruire chi
fosse e dove l’avesse visto; era anche molto preoccupato perché
negli Stati Uniti non ricordare il nome di un conoscente al momento
dei saluti è una forma di maleducazione abbastanza grave. Così
scartabellava nella rubrica mentale, mentre era sempre più vicino al
conoscente-sconosciuto, con quel po’ d’ansia che danno sempre le
parole sulla punta della lingua, i lapsus di amnesia, i
piccoli tombini che si possono aprire anche sul piano di una memoria
prodigiosa come quella di Umberto Eco (a lezione mi ricordo che una
volta ebbe una lacuna sul nome della moglie di Priamo, Ecuba, e
un’altra sul nome della società appena fondata da Agnelli e
compagnia per acquistare il Corriere della Sera, che era «Gemina»;
io me lo ricordavo perché era un anagramma di «enigma»). Quando fu
a un passo da lui, raccontava, era oramai rassegnato a sorridere e a
salutare e magari sostenere poi una conversazione generica; ma
all’ultimo momento sopravvenne l’illuminazione: la persona che
credeva di dover salutare era il celebre attore Anthony Quinn, a cui
non era mai stato presentato e che conosceva, come tutti, solo da
spettatore. Stornò il sorriso di circostanza dal proprio volto e lo
incrociò senza salutarlo ma con il senso di aver attraversato una
piccola avventura interiore.
Dato che un semiologo è
un semiologo, si interrogò poi su quanto era successo, ovvero sul
doppio senso della parola «familiarità» e la possibilità di
confondere i due gradi di conoscenza che ne derivano: quella
personale e quella mediata, o mediale. Da un lato ci sembra di
conoscere davvero persone che abbiamo visto solo su schermi grandi e
piccoli, mentre loro ovviamente non conoscono noi. È quello che ti
dicono le zie che abitano lontano: «È un po’ che non ci vediamo,
ma almeno io vedo te qualche volta in televisione». C’è però
un'altra faccia della medaglia: quando non prendiamo un volto noto
per una persona che conosciamo davvero, allora ci comportiamo come se
costui o costei non fosse sul nostro stesso livello ontologico di
esistenza. Non persona ma personaggio, in sua presenza ci permettiamo
di indicarlo, di riferirci a lui o lei come se non potesse
ascoltarci. Ancor più della vecchia usanza dell’autografo, la
nuovissima richiesta di fare assieme un selfie in fondo mira a
questo: trovare un livello comune di esistenza, fra la realtà
quotidiana, in cui abbiamo incontrato la star per strada o al
ristorante, e quella mediale, in cui la ammiriamo o semplicemente
riconosciamo per quello che fa in tv, al cinema, scrivendo libri,
facendo musica, giocando a pallone. Quello del selfie è l’universo
in cui siamo entrambi reali, come modelli dello scatto, e virtuali,
come volti ritratti. Poi, ognuno per la propria strada, si ritorna
asimmetrici.
Almeno in Italia, Umberto
Eco era invece dalla parte della barricata di Quinn e nei ricordi
delle persone che ora, dopo la sua scomparsa, raccontano di averlo
conosciuto o almeno incrociato – in una biblioteca, in un incontro
pubblico, in un ristorante – mi colpisce la frequenza di accenni
alla sua disponibilità, o alla sua «semplicità», perché magari è
stato visto mentre ordinava una pizza margherita oppure perché non
disdegnava di scambiare quattro chiacchiere con uno sconosciuto, a
proposito del tempo che fa. Venne a casa mia, un tardo pomeriggio,
perché voleva esaminare un oggetto in mio possesso e non voleva
darmi il pur moderato disturbo di trasportarlo da lui. Al citofono mi
chiese se c’era un posto sicuro in cui lasciare la sua bicicletta;
scesi ad aprirgli il portone e una coppia di vicini di casa sgranò
gli occhi alla scena di Umberto Eco che armeggiava con il lucchetto
per bloccare la ruota posteriore, nel cortile semibuio. Come chiunque
altro, certo: «Come se non fosse Umberto Eco».
È curioso. Si pensa che
l’autore di vari best-seller non vada in bicicletta, o non la
chiuda personalmente? Ci si aspetta che abbia un addetto che lo
faccia per lui? Più in generale, perché riteniamo che i personaggi
famosi non vivano esattamente come chiunque altro? Forse si deve
proprio a questo la riluttanza di Eco ad andare in televisione –
robustissima soprattutto quando più era richiesto e negli stessi
anni ’80 e ’90 in cui solo la tv sembrava poter sanzionare il
fatto di essere personaggi pubblici. Sapeva, o almeno intuiva, che
l’immagine televisiva è come un’aura che si stacca dal merito
del proprio lavoro, e dalle ragioni del proprio successo, e finisce
per prendere vita propria. La gente ti riconosce ma non sa chi sei.
Quando un personaggio si abitua psicologicamente a questo status
ibrido incomincia a comportarsi, nei luoghi pubblici, in modo strano,
e spesso avulso dalla propria reale personalità.
Se Eco fosse stato
davvero, come si dice, «geloso del proprio privato», avrebbe fatto
come molti: si sarebbe barricato in casa, uscendo solo in auto e per
recarsi in luoghi protetti e frequentando esclusivamente altre
persone-personaggi. Lo fanno in tanti, che dalla prima trasmissione
televisiva condotta o dalla prima intervista rilasciata al TgUno non
hanno più preso un mezzo pubblico. Eco si comportava diversamente e,
peraltro, in piena coerenza con teorie che conosceva bene come la
sociologia delle interazioni di Erving Goffman o la semiotica della
cultura di Jurij Lotman. La sua aspirazione era quella di vivere in
mezzo al prossimo secondo i propri parametri e non secondo quelli
adeguati all’aura della sua fama. Negli anni si era creato alcune
situazioni locali privilegiate: il suo quartiere a Milano, la zona
universitaria a Bologna, il paese marchigiano in cui passava le
vacanze. In questi ambienti – o «semiosfere» locali – aveva,
oltre alle sue frequentazioni personali, i suoi bar, ristoranti,
pizzerie, librerie, edicole, farmacie, luoghi e persone che lo
facevano sentire a proprio agio nel comportarsi come chiunque altro.
Anche chi passava di lì per caso percepiva questa mancanza di
tensione divistica e si adeguava alla situazione. Così la gente che
incontrava non lo tampinava con domande o richieste strampalate,
certezza che lo autorizzava a non mettere limiti prudenti alla
propria naturale e gioviale cordialità, che ora gli viene
riconosciuta con stupore da chi l’ha occasionalmente incontrato in
tali situazioni. Fuori da questi ambiti, invece, era più guardingo e
impaziente, e poteva arrivare alle soglie della scortesia, almeno
fino a che non trovava qualcuno della cui protezione fidarsi.
Torna in mente, a questo
punto, una serata passata ad Almese, in Val di Susa, dove aveva
accettato di ricevere un premio, per omaggiare con affetto sincero la
memoria del bravo giornalista culturale della Stampa e di Tuttolibri
a cui era intitolato, Giorgio Calcagno. Esaurita la cerimonia ci fu
una cena «placée» in un ristorante, allietata dalla musica di una
giovane arpista che suonava in mezzo ai tavoli. La cena durò come un
medio matrimonio e subito dopo il dessert lo sentii dire, all’altro
capo della sala, «ora vado a bermi un whisky con Bartezzaghi». Io
ero seduto a un tavolo di notabili locali, vicino all’uscita: Eco
passò, reggendo borse che si indovinavano pesanti, e mi rapì
dicendo a voce neppure troppo bassa: «Se non andiamo in fretta mi
regalano altri libri». In una borsa trasportava preziosissimi
acquisti che gli avevano recapitato lì certi librai antiquari
torinesi amici suoi; in un’altra aveva alcuni esemplari dell’unica
forma di editoria che attualmente non è in crisi: i libri
dell’Assessore (volumi illustrati di grande peso e formato,
commissionati dagli enti locali a proposito di glorie e tesori del
territorio, regalati sistematicamente e con forse involontaria
crudeltà a ogni personalità in visita). All’uscita del ristorante
scoprii che per l’occasione disponeva di un autista: un signore suo
coetaneo, molto loquace e spiritoso, che era stato comandante dei
vigili urbani e che era stato incaricato, in mattinata, di andare a
prendere il professore a casa. Durante il tragitto avevano molto
familiarizzato, con barzellette, aneddoti, confidenze sulle famiglie
e sugli acciacchi, forse anche canti: così Eco lo aveva eletto a
proprio custode. L’unico bar aperto era sullo stradone che collega
Almese al resto della valle, una specie di stazione di servizio, con
tabaccheria, tavola calda, pompe di benzina. Trovammo un tavolino
sulla terrazza esterna, in mezzo ai clienti notturni, fra i quali
conviveva pacificamente una popolazione autoctona di anziani
dialettofoni giocatori di carte e/o commentatori «di base» di
eventi sportivi e giovani variopinti e vario-tatuati, tutti già un
po’ alticci. Il dehors sopraelevato del bar dava sulla
strada, su cui rombavano auto, camion e moto. Eco patteggiò le
consumazioni, ottenendo le quantità e proporzioni di bevande e
ghiaccio da lui preferite. Da quel momento fu a perfetto suo agio per
un paio d’ore: non era mai stato là e non conosceva nessun altro,
a parte me e, da poco, il comandante in pensione (strabiliato dalla
familiarità stabilita con una persona di tanto rilievo), eppure era
come se fosse nel suo locale preferito di Milano o Bologna.
Ho sempre ammirato questa
sua capacità di creare situazioni a lui consone, in cui cioè non si
sentisse minacciato dalla conoscenza indiretta che gli altri avevano
di lui. Sapere come raggiungere il proprio agio è una forma di
saggezza superiore a molte altre, una virtus da filosofo
latino. Umberto Eco la deteneva al massimo grado, nel lavoro e nelle
relazioni. Forse è anche (se non soprattutto) per questo che lui
sapeva essere Umberto Eco con molta più disinvoltura di quella con
cui quasi ognuno di noi riesce a essere sé stesso.
“doppiozero”, 23
febbraio 2016
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