Una immagine da "L'albero degli zoccoli"
Ho
studiato dai Salesiani a Milano, ero un pessimo scolaro. Eravamo alla
fine dell’anno, e nell’ultimo tema di italiano scrissi di un mio
rapporto speciale con un albero: nel testo mi arrampicavo fino al
ramo più alto e stavo a dialogare con lui; ma era un monologo,
perché il vero dialogo era con me stesso. Agli scrutini mi aspettavo
un disastro su tutta la linea, invece sul tabellone lessi “promosso”
e rimasi sorpreso. Il professore di lettere, un giovane sacerdote di
24 anni, era lì nell’atrio della scuola e incrociò il mio
sguardo: «Ti ho promosso per il tuo racconto fra te e l’albero»,
mi disse.
Quando
il Padreterno, soffiando sulla materia inerte, ha portato nel mondo
la presenza dell’uomo, risultato ultimo della Creazione, ci ha
fatto e, soprattutto, ci ha raccomandato di essere liberi. Se un
percorso scolastico viene ridotto a schema di comportamenti, non solo
impoverisce il rapporto con la realtà ma si offende Dio. Il
salesiano aveva capito cosa c’era al di là della mia
sprovvedutezza (io, naturalmente, all’epoca non avevo fatto queste
considerazioni) e ha sottoscritto la raccomandazione del grande
artefice. Questa credo sia la condizione giusta, necessaria, di tutti
gli esseri umani. Senza questa libertà innanzitutto ci
confonderemmo. C’è un dato esclusivo negli alberi, che ci fa
dialoganti con noi stessi. Sul retro della mia casa, qui ad Asiago,
inizia il bosco. È un luogo che da sempre contiene tutti i misteri.
Gli alberi hanno bussato alla mia innocenza di bambino e si sono
presentati come amici.
Ne
Il mistero del bosco vecchio,
il colonnello Procolo solo alla fine capisce che gli alberi sono una
presenza amica, e che ognuno di loro è dotato di un’anima. È
un’idea che è già nel bellissimo racconto di Dino Buzzati, da cui
ho tratto il mio film: gli alberi del bosco sono come le persone,
parlano tra loro, soffrono quando vengono abbattutti. Tiziano Terzani
suggeriva, quando siamo costretti a tagliare un albero, di chiedergli
almeno scusa e spiegargli il perché. Nell’Albero degli
zoccoli un contadino taglia una
pianta per intagliare le scarpe al figlio, e per questo viene
cacciato dal padrone. Moravia mi imputava il fatto che per fare uno
zoccolo veniva tagliato un albero intero: ma per quello scopo serviva
il legno di un’“albera”, ossia di un pioppo: un legno che deve
essere ancora “vivo” quando è lavorato, perché quando è morto
e ormai privo della linfa, diventa duro e resistente. Il contadino,
quindi, non taglia l’albero a caso.
Questa
storia fa emergere due modi di avvicinarci alla natura che
corrispondono a dinamiche di disponibilità e di possesso: i
contadini la vivono come disponibilità e fatica, il padrone come
possesso e sfruttamento. Quest’ultimo è il “proprietario”
della terra, ma Jean-Jacques Rousseau, diceva: «Se vi dimenticate
che i frutti sono di tutti, e gli alberi di nessuno, voi perirete».
La natura ci dona tutto ciò che per noi è necessario alla vita. Non
solo l’albero grande: persino un filo d’erba. Ma l’albero
condensa simbolicamente e materialmente in sé, in quanto creatura
che appartiene alla terra, tutto ciò che ci consente di vivere.
Senza alberi non saremmo nati. «I frutti sono di tutti, gli alberi
di nessuno», perché noi e loro facciamo tutti parte del grande
sistema della vita.
Avvenire,
5 giugno 2016
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