Ho
esitato a scrivere per rendere omaggio (o oltraggio) a Simone de
Beauvoir nel centenario della nascita. In molti, forse troppi, lo
avevano già fatto, specie oltralpe, impiegando ogni possibile
risorsa mediatica, mentre la corposa uscita gennaio-marzo di “Les
Temps Modernes” era intitolata La transmission Beauvoir.
A convincermi a scrivere è stata la lettura di uno stringatissimo
saggio sulla rivista stessa, in cui Élisabeth Badinter dichiara: «La
philosophie à l’œuvre dans Le deuxième sexe
a fait prendre conscience aux femmes de leur inestimabile droit de
dire NON». Non so se si possa parlare davvero di filosofia, ma
leggendo Le deuxième sexe
ho senz’altro detto NO alla maggioranza dei suoi contenuti e dei
suoi goffi tentativi di argomentare a favore di tesi non del tutto
chiare. NO, anche perché la penso proprio come la grande Stevie
Smith: «Miss de Beauvoir has written an enormous book about women
and it is soon clear that she does not like them, nor does she like
being a woman».
Ho
però esitato a scrivere anche per altre ragioni. Se da una parte la
mia lettura degli scritti di de Beauvoir risaliva ai tempi lontani in
cui ero una ragazzina, e non mi aveva entusiasmato, nonostante
durante l’adolescenza ci si lasci facilmente incantare da un
carisma intellettualoide tutto parigino, dall’altra, una volta
superata l’adolescenza, la figura “Simone de Beauvoir”, proprio
perché di fascino francese, l’ho trovata sempre più sgradevole.
L’immagine, magari anche pregiudiziale, che mi si è conficcata in
mente è quella di lei seduta al Café de Flore, a bere, a fumare
Gitanes senza filtro (o erano Gauloises?), a scrivere, a
chiacchierare con Jean-Paul Sartre, con quell’insopportabile posa
del “noi siamo i filosofi”. Di Sartre, poi, non ho mai apprezzato
nulla, e meno che mai quella che è considerata la sua opera
maggiore, L’être et le néant.
La coppia più “cerebrale”, libera e libertina dell’ultimo
secolo francese mi è sempre parsa infida, capace di quella joie
de vivre che si concretizza nel
sedurre (senza la minima responsabilità etica) le giovani
studentesse, priva di un’effettiva originalità intellettuale,
impegnata a scandalizzare per il mediocre gusto dello scandalo,
contrabbandato però come un gesto eroico di lucida autenticità.
La
sua urgenza abulica di scrivere, il suo volersi imporsi agli occhi
del mondo come la pensatrice della ristretta cerchia dei maîtres
à penser, il suo essere non la
donna bella e al contempo intelligente, ma la donna che deve
mostrarsi bella e deve mostrarsi intelligente, talmente pretenziosa
da volere parlare a nome di ogni donna, così come di svelare gli
orizzonti di ogni singolo aspetto della femminilità, il suo negare
importanza alla “razza” e alla classe di appartenenza, le sue
generalizzazioni avventate, a partire dalla propria esperienza di
donna bianca, privilegiata e dell’ottima bourgeoisie
francese, mi hanno sempre reso piuttosto antipatica de Beauvoir. Nei
confronti delle persone antipatiche, provo in genere una certa
freddezza, o una qualche forma di pigrizia; quindi, non mi interessa
se de Beauvoir fosse frigida e/o ninfomane, quali fossero in realtà
i suoi orientamenti sessuali, se ha scritto Le deuxième
sexe per uno sconfinato rancore
nei confronti di Nelson Algren (la cui unica colpa era quella di
essere uno splendido amante), se ha iniziato a dichiararsi (troppo
tardi – negli anni settanta, mi pare) femminista per mera
convenienza. Riuscire però a stendere le circa mille pagine di Le
deuxième sexe in poco più di
due anni non è un’impresa da tutti e a risentirne sono senz’altro
le argomentazioni ben poco rigorose, i contenuti che rivelano tra le
righe tratti di eccelsa misoginia, l’ostilità esagerata per la
maternità, l’errata equazione tra rifiuto della maternità e
indipendenza, le tante confusioni e contraddizioni, la mancanza di
oggettività complessiva del volume. Pubblicato nel 1949 in due
parti, Le deuxième sexe
è da poco uscito in una bella nuova riedizione italiana de Il
Saggiatore, nella pregevole traduzione di Roberto Cantini e Mario
Andreose, con una prefazione di Julia Kristeva e una postfazione di
Liliana Rampello. Un libro da leggere ancor oggi, senz’altro, anche
per comprendere i tanti luoghi comuni sulle donne e delle donne del
circolo “de Beauvoir”, della bourgeoisie
dell’epoca: occorre leggerlo da un punto di vista sia
storico-sociologico per chiederci quanti di quei luoghi comuni
appartengono ancora ad alcuni o a molti di noi, sia filosofico per
continuare a dire NO ai suoi contenuti e alle sue argomentazioni.
Nei
confronti di de Beauvoir, sono convinta di non essere debitrice di
(quasi) nulla, né come donna, né come filosofa, e ritengo che ciò
valga anche per molti/e altri/e: è allora ancora nel torto Élisabeth
Badinter quando, parecchi anni orsono, ha dichiarato senza esitare
«Femmes, vous lui devez tout!»
e recentemente «Elle a été la philosophe de la liberté
des femmes». Le idee di
Bernard-Henri Lévy (si veda La donna che uccise Madame
Bovary, Il Corriere della sera,
13/05/08) mi risultano poi enfatiche e al contempo strampalate: è
vero, niente affatto un cliché
come pretende invece BHL, il fatto che «l’insurrezione femminista
[fosse] inesorabile, necessaria, che si sarebbe prodotta comunque e
di essa la Beauvoir si sarebbe limitata a recuperare la fiaccola»;
oltre al resto, mi lascia assai perplessa che grazie a lei «tutte le
donne sono, ovunque nel mondo, anche sotto il burka o in stato di
schiavitù, un po’ più donne, un po’ più libere, un po’ più
sovrane di quanto sarebbero state senza di lei e senza il suo libro».
Cosa significa, per esempio, “essere un po’ più donne”?; un
po’ più come Carla Bruni Sarkozy, un po’ più come un’africana
falcidiata dall’Aids, un po’ più come una prostituta bambina
destinata al turismo sessuale?; che consapevolezza ha BHL dei tanti
modi in cui nel mondo le donne sono rese libere o schiave?; ha mai
dato anche solo un’occhiata al volume Are Women Human?
And Other International Dialogues
di Catharine MacKinnon (Harvard University Press)? Ma si sa, la
superficialità dei nouveaux philosophes
è incontenibile.
Non
pensate che ce l’abbia con Parigi. È pur sempre a Parigi che c’è
il ritratto sessualmente più intrigante dell’intera storia
dell’arte, la Gioconda,
e quello più perspicuo, L’Origine du monde.
E’ pur sempre Parigi che vede George Sand vestirsi da uomo,
consente a Coco Chanel di lanciare lo stile androgino, ospita al
contempo l’edonismo di Colette e l’ascetismo mistico di Simone
Weil. Quanto diverse sono le due Simone – Weil e de Beauvoir –
quanto apprezzo la prima, e non la seconda, sia negli scritti, sia
nella coerenza di vita, e cosa non darei per assistere a un loro
incontro/scontro nel cortile della Sorbonne, per assumere le difese
di Simone Weil e rimproverare a Simone de Beauvoir l’alterigia,
l’indifferenza, la competitività nei confronti delle donne, nonché
l’ordinario desiderio di essere solo un altro, ennesimo, uomo tra
gli uomini. E non apprezzo affatto che “la Grande
Sartreuse”, considerata
davvero a torto l’icona dei movimenti di liberazione femministi, si
trovasse talmente a suo agio sotto il regime di Vichy, da essere
disposta a concedersi (senz’altro con aristocratica nonchalance)
piacevoli vacanze in montagna. Dov’era e cosa faceva in quegli
stessi anni Simone Weil? Come ha rilevato Susan Sontag, Simone Weil
«ci commuove, ci dà nutrimento», nonostante i suoi eccessi mistici
e il suo problematico supplizio. Simone de Beauvoir, invece, ci nutre
ben poco e non ci commuove quasi per nulla.
Magari
Le deuxième sexe,
sebbene sia l’opera beauvoiriana per eccellenza, di successo,
quella più ricca e venduta (ma in quanti l’hanno letta
integralmente, nonostante in molti la ritengano una specie di
bibbia?) è un testo che non ha più nulla da dirci, perlomeno sotto
il profilo filosofico, sempre che abbia avuto da dirci qualcosa in
passato, e/o che non fosse meramente «a modern-day sex
manual», come lo giudicava
Blanche Knopf. Certo, Betty Friedan ha riconosciuto a de Beauvoir il
merito di averle fatto comprendere la condizione delle donne, ma se
non ci si chiede quali siano queste donne, e se nel chiedercelo ci si
trova costretti a rispondere che le donne in questione non sono altro
(a voler essere generosi) che tante ambivalenti de Beauvoir, il
merito può trasformarsi rapidamente in un demerito. E se nel volume
c’è qualcosa di filosofico, esso si trova talmente ingarbugliato
con molte altre considerazioni non sempre appropriate (di tipo
antropologico, biologico, letterario, politico, psicoanalitico,
sociologico, storico, e via dicendo) da restituirci l’idea di una
dea-scrittrice assurdamente onnisciente, o di una vampira-scrittrice
che amalgama alla rinfusa quanto riesce a trovare alla Bibliothèque
Nationale. C’è di sicuro un po’ di Agostino, Aristotele,
Diderot, Engels, Hegel, Kierkegaard, Marx, Merleau-Ponty, Montaigne,
Montesquieu, Nietzsche, Platone, Rousseau, Sartre; c’è di sicuro
un po’ di accidente, Altro, Assoluto, determinismo, dualismo,
essenza, esistenzialismo, fenomenologia, immanenza, materialismo
storico, nulla, mitsein, Soggetto, sostanza, trascendenza, Uno,
mentre c’è pochissimo Descartes, Locke, Pascal, Spinoza, Voltaire.
Ma tutto ciò è lungi dal restituirci una filosofia beauvoiriana
compiuta, invece che posticcia, specie quando de Beauvoir privilegia
i motti, piuttosto che le argomentazioni, delle diverse filosofie a
cui si ispira, e in ogni caso evita spesso le filosofie che
argomentano per concedersi più facilmente a quelle che abbagliano
per retorica ed effetti speciali.
C’è
chi viene in soccorso di de Beauvoir, sostenendo che, nonostante
tutto, ha piegato in modo originale la filosofia – sebbene una
cattiva, fragile filosofia – alle tematiche del sesso e della
sessualità. Sinceramente, non vedo come si possa venire in soccorso
della cattiva, fragile filosofia di chiunque, solo perché il
soggetto che tratta è (più o meno) nuovo. Nuovo? E il Simposio di
Platone? Se comunque applicassi una cattiva e fragile filosofia al
portapenne della mia scrivania per circa mille pagine, acquisirei
davvero qualche seria credibilità nell’olimpo filosofico francese?
Quando, invece, mi viene detto che la sostanziale innovazione di de
Beauvoir si situa nell’insistenza sull’eguaglianza delle donne,
replico che di innovazione non si tratta affatto – basta leggersi
(tra le altre) le belle pagine di John Stuart Mill e Harriet Taylor
(si veda, in traduzione italiana, il loro Sull’equaglianza e
l’emancipazione femminile, edito da Einaudi). Qualora si insista
poi sul fatto che la reale rivoluzione di de Beauvoir consiste in una
disamina acuta di come le donne sperimentano il proprio corpo e il
proprio esistere in quanto donne, ribatto che c’è sempre un lato
soggettivo del proprio sperimentare e del proprio esistere, che c’è
un effetto che fa a me essere donna che non è l’effetto che fa a
te essere donna, perché c’è un modo di conoscere che è
“interno”, o “in prima persona” (si veda, per esempio, Thomas
Nagel, “What Is It Like to Be a Bat?”,
Philosophical Review, 83, pp. 435-450). Ancora si può sostenere che
l’effettiva originalità di de Beauvoir si condensi tutta nel Libro
secondo. L’esperienza vissuta
di Le deuxième sexe,
il libro controverso, polemico, uscito a cinque mesi dal primo, nel
novembre del 1949, che ha scandalizzato, e oggi non ci scandalizza
più perché i “costumi” sono mutati. Scandalizza invece e ancora
la sottoscritta. Basta citare un capitolo, quello intitolato “La
lesbica”, per capire quanto l’articolo determinativo, ricorrente
anche in altri capitoli (“La fanciulla”, “L’iniziazione
sessuale”, “La donna sposata”, “La madre”, “La vita di
società”, “La donna narcisista”, “La donna innamorata”,
“La donna mistica”, “La donna indipendente”) ci restituisca,
volente o nolente, tutta una lunga serie di luoghi comuni (ed
eterosessisti) sul lesbismo, spesso incoerenti tra loro, stereotipi
forse legati alla cultura del tempo, ma anche a una qualche
appiccicosa ignoranza o censura di de Beauvoir stessa. “La
lesbienne” ci offende per il tentativo (peraltro rinnegato e
comunque mal riuscito) di rintracciare un’unica lesbica, un modo
singolare di poter/dover essere lesbica, che troppo spesso ha a che
fare con un’assoluta sovranità erotica o un’altrettanto assoluta
indifferenza, più che con una vera e propria scelta di esistere, di
amare, di cui l’erotismo viene a fare parte integrante. Anche
quattro sole citazioni sono illuminanti in proposito:
«L’omosessualità può essere per la donna tanto un modo di
respingere quanto di assumere la propria condizione» (p. 389); «Come
la donna frigida desidera il piacere pur rifiutandolo, la lesbica
spesso vorrebbe essere una donna normale e completa, pur non
volendolo» (p. 393); La donna lesbica è «pari a un castrato…
imperfetta come donna, impotente come uomo» (p. 394); «Assenza o
insuccesso di relazioni eterosessuali… voterà [le lesbiche]
all’inversione» (p. 399).
Sì,
mia cara Simone, ti tradisci davvero, quando continui a parlare di
lesbismo come di un’inversione (rispetto a che?), e non riesci
neanche a immaginare, figuriamoci ad anticipare, la complessità
delle filosofie lesbiche, che analizzano temi come l’amicizia,
l’amore, l’autobiografia, il “continuum”, l’etica, il
desiderio, il diritto, i femminismi, la letteratura, il nomadismo,
l’oppressione, la politica, i razzismi, la salute, la sessualità,
il separatismo, la violenza, la storia, e molti altri, tra cui la
maternità lesbica che a te avrebbe fatto orrore per il solo fatto di
essere “maternità”.
Mi
si rimprovererà a questo punto di non aver ancor menzionato il
famoso slogan con cui il secondo libro si apre: Donna non
si nasce, lo si diventa. In
realtà, non volevo nominarlo: è solo uno slogan sovrastimato. Vi si
parla di “donna” e non “di donne”: il concetto di donna,
soprattutto quando lo si traduce in “La donna” (al pari di “La
lesbica”, e via dicendo) conferisce credito alla convinzione che
l’essenza della donna non sia una finzione al servizio del
maschilismo e dell’eterosessismo. Eppure lo slogan riassume la
“vera” de Beauvoir, incapace di capire che parlare di “donna”,
e non di “donne”, conduce a legittimare determinate pratiche e a
delegittimarne altre – per esempio, ad assegnare alla donna e,
pertanto, alle donne ruoli culturali, intellettuali, professionali,
sociali, distinti e inferiori rispetto ai ruoli assegnati all’uomo
e, pertanto, agli uomini. Per di più, lo slogan non anticipa la
distinzione tra sesso e genere, non solo perché de Beauvoir stessa
non utilizza i termini (la lingua francese, del resto, non ne agevola
l’impiego) e tratta esplicitamente solo di “secondo sesso”, non
di “secondo genere”, ma anche perché i termini che adopera
(“femmina” e “donna”) possono rimandare a concetti legati sia
alla natura, sia alla cultura – sempre che la distinzione tra
natura e cultura abbia senso, che ci siano solo due sessi (cosa assai
dubbia) e solo due generi (cosa altrettanto dubbia). Meglio,
decisamente meglio, addentrarsi nelle meravigliose complessità della
differenza tra sesso e genere leggendo “la più lunga lettera
d’amore della storia”, ovvero Orlando
di Virginia Woolf, e lo stesso vale per capire qualcosa del concetto
di donna: «“Che cosa, dunque? Chi, dunque?” diceva Orlando.
“Trentasei, in macchina; una donna. Sì, ma un milione di altre
cose ancora. Snob, io? La Giarrettiera, nel vestibolo? I leopardi? I
miei antenati? Orgogliosa di essi? Sì! Golosa, lussuriosa, viziosa?
Io? (Qui entrò un nuovo io.) Me ne importa un fico, se lo sono.
Sincera? Credo di sì. Generosa? Oh, ma questo non conta. (Qui entrò
un nuovo io.) Starsene a letto al mattino, a sentire tubare i
piccioni fra le lenzuola di tela d’Irlanda; piatti d’argento;
vini; cameriere; domestici. Viziata? Forse. Troppe cose per nulla.”…»
(Orlando, Mondadori
1996, p. 286). Le differenze tra Virginia Woolf e Simone de Beauvoir
sono molteplici, a partire da una oltremodo evidente: la prima, a
differenza della seconda, è una scrittrice e pensatrice di eccelsa
levatura. E Virginia Woolf pensava che la superiorità intellettuale
e creativa non fosse né maschile, né femminile, bensì
semplicemente androgina, al contrario di de Beauvoir che ha sempre
cercato di imporsi come la pensatrice (o il pensatore?) in un mondo
declinato tutto al maschile.
“L'Indice”,
ottobre 2008
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