Un grande solitario lo
era stato sempre, però negli ultimi anni, anche prima della malattia
che il 26 settembre dello scorso anno lo avrebbe portato alla morte,
Sebastiano Timpanaro si era praticamente autorecluso. Tra via dei
Ginori, dove abitava, e via degli Alfani, dove frequentava l'Istituto
di filologia classica, il suo cappotto grigio non si vedeva quasi
più. Erano diventate rare anche le sue torrenziali telefonate agli
amici. «Cosa esco a fare? - diceva a Marcello Rossi, il direttore
del «Ponte», con cui aveva lavorato per più di vent'anni alla
Nuova Italia - Incontro solo una gran massa di imbecilli, che per di
più mi salutano».
Alla fine di una vita di
studi e di battaglie, rimanevano l'ironia e lo sdegno. Rimaneva
Leopardi. Non il Leopardi dell'equivoco romantico, ma quello che lui
stesso aveva contribuito a rivelare nei suoi saggi sull'Ottocento
italiano e nel quale in fondo si identificava: il pensatore ateo,
materialista, pessimista, convinto che la felicità sia il fine di
tutte le creature e l'infelicità il loro destino. Contrariamente
alla sua irruenza di timido e alla sua impazienza di rivoluzionario,
l'eredità di Timpanaro è un farmaco ad azione lenta e a largo
raggio, come tutte quelle che toccano l'essenziale della condizione
umana. Se ne accorgono, a un anno dalla morte, le due città della
sua vita, Pisa e Firenze, che gli dedicano una mostra a Palazzo
Lanfranchi e un convegno di due giorni organizzato dalle rispettive
università, dalla Scuola Normale Superiore e dal Gabinetto Vieusseux
(domani a Pisa, nella sala azzurra della Normale, intervengono tra
gli altri Vincenzo De Benedetto e Tullio De Mauro; sabato mattina,
nell'aula magna dell'università di Firenze, tocca ad Antonio Rotondò
e Michael Reeve, mentre il pomeriggio a Palazzo Strozzi è la volta
di Alessandro Pagnini e Romano Luperini).
In questi giorni,
inoltre, è in libreria un numero speciale del «Ponte», intitolato
«Per Sebastiano Timpanaro» e corredato di una preziosissima
bibliografia (entrambi a cura di Michele Feo). L'indice della rivista
e il programma del convegno parlano da soli della vastità e della
complessità del «continente Timpanaro»: filologia classica, studi
latini, letteratura italiana, linguistica, filosofia, psicanalisi.
«Ognuno ha il suo Timpanaro - è il commento di Marcello Rossi - I
filologi esaltano il filologo, i letterati il letterato, i filosofi
il filosofo. Ma nessuna delle discipline che Sebastiano ha
frequentato basta ad esaurirlo. Personalmente ricordo un grande
redattore, che ogni pomeriggio teneva lezioni memorabili nel suo
ufficio della Nuova Italia. Quanto a lui, sosteneva di essere solo un
dilettante, che si era occupato di troppe cose e le aveva fatte tutte
male».
«Nella sua modestia
Timpanaro tendeva a minimizzare i suoi lavori - interviene Luca
Baranelli, che con Timpanaro ha condiviso amicizie e passione
politica - ma appena si cercano verifiche o riscontri specifici, si
ha la conferma che era uno studioso eccezionale, un grandissimo
filologo e un latinista sommo. Io ho conosciuto e apprezzato di più
l'uomo politicamente impegnato, appassionato alle sorti del mondo, ma
non mi sognerei di ridurlo a questo». E tuttavia Timpanaro è stato
anche questo. Un militante di base, come amava definirsi.
«Si dichiarava marxista
- prosegue Baranelli - sia pure sui generis, come del resto ogni
marxista che abbia pensato e detto qualcosa di originale e di nuovo.
A un certo punto, mi pare nel suo libro sul materialismo, si è
definito "marxistaleopardista". Non si faceva nessuna
illusione sulle "magnifiche sorti" dell'umanità». Però
non rinunciava a combattere.
Il suo grande nemico
aveva un nome che oggi la sinistra si vergogna a pronunciare:
capitalismo. Per questo forse la vicenda politica di Timpanaro è un
susseguirsi di esodi, prima dal Psi al Psiup, poi, a metà degli anni
Settanta, l'esperienza brevissima col Pdup, quella traumatica col
gruppo del Manifesto, più di recente le simpatie per Rifondazione, e
infine, ancora una volta, la solitudine. «Lo hanno definito un
pensatore inattuale - è ancora Rossi che parla - Era un socialista
nel vero senso, uno che voleva cambiare il mondo. Certo, in questo
secolo si trovava male, ma i rivoluzionari non stanno bene da nessuna
parte».
“la Repubblica”, 22
novembre 2001
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