Bonazzi parte da
un'intuizione di Beniamino Placido (Edipo alle origini del giallo
moderno) e la approfondisce con riflessioni sul destino e sulla
libertà, che ripropongono domande radicali. Un articolo da leggere e
meditare. (S.L.L.)
Edipo e la Sfinge in una pittura vascolare (Vaso attico V sec. a.C., oggi ai Musei Vaticani) |
Perché Edipo, subito
dopo che si è strappato gli occhi con le sue proprie mani, accusa
Apollo, lo incolpa di tutto quello che gli è successo? Sono lontani
i tempi in cui il romanzo giallo era considerato un genere minore. Di
sicuro è quello più adatto alla filosofia: in entrambi i casi si
tratta di ricomporre una trama, di cercare il disegno che si cela
dietro al disordine apparente. L’ordine magari non sarà quello
auspicato ma comunque esiste, come ne Il giorno della civetta
di Sciascia, in cui il commissario Bellodi riporta alla luce il
sistema di corruzione e connivenze che permette ai tanti don Mariano
Arena di prosperare sul «bosco di corna» dell’umanità.
A volte invece il giallo
serve a mettere in crisi l’illusione dell’ordine, rivelando che
il mondo è dominato dalla confusione. Come ne La promessa di
Friedrich Dürrenmatt: paziente, meticoloso, ostinato il commissario
Matthäi ha capito tutto, sa dove l’assassino colpirà la prossima
volta: si apposta, ma l’attesa durerà tutta la vita (il
commissario si licenzia e si mette a fare il benzinaio in una
sperduta piazzola di servizio perché sa che è lì che tutto deve
accadere), inutilmente, perché la sua preda, l’assassino in
viaggio per il delitto, è morta in un banale incidente
automobilistico. Era tutto giusto, il commissario aveva compreso, il
disegno era quello, ma la realtà è governata dal caso: ogni
tentativo di controllo razionale del disordine, ogni progetto di
riduzione del caos a cosmo, è destinato allo scacco. Matthäi però
continua ad aspettare, mentre la luce del sole si dispiega su un
mondo sempre più incomprensibile.
Il dio della luce, in
Grecia, era Apollo. Edipo, invece, è l’archetipo del detective, e
la tragedia di Sofocle che racconta la sua vicenda, l’Edipo re, è
il modello ineguagliato del romanzo giallo. Un investigatore,
intelligente, caparbio, implacabile, è sulle orme di un assassino.
Laio, il re di Tebe, è stato ucciso, e Edipo, il nuovo re, vuole
fare giustizia. Raccoglie gli indizi, ascolta i testimoni,
ricostruisce i fatti. Alla fine scopre che il colpevole è lui
stesso. È la trama più semplice, quella perfetta. L’investigatore
è l’assassino: tutto si concentra in un unico personaggio, il
resto non conta, fa da contorno.
Ma Sofocle non si
accontenta, vuole di più. I romanzi gialli si reggono
sull’incertezza. L’Edipo re invece non fa nulla per nascondere
l’identità dell’assassino, fin dall’inizio: il pubblico lo
sapeva prima ancora che la tragedia cominciasse (il mito era noto) e
Tiresia lo rivela subito allo stesso Edipo. L’oracolo di Delfi
aveva predetto a Edipo che avrebbe ucciso il padre e sposato la
madre; Edipo era subito fuggito da Corinto, ignorando che Polibo e
Merope non erano i suoi veri genitori. E durante la fuga aveva prima
ucciso il suo vero padre e poi sposato la madre, Laio e Giocasta, i
sovrani di Tebe.
La tragedia - l’indagine
del commissario Edipo - svela una storia che conoscevano tutti. Come
si spiega allora quella suspence che inchioda al testo
qualunque lettore, che impedisce di distogliere lo sguardo dal
palcoscenico? Perché Edipo non sta cercando soltanto un assassino. E
noi stiamo cercando con lui. Sperando che abbia successo, ma allo
stesso tempo terrorizzati da quello che lo attende in fondo al tunnel
in cui si è addentrato, come in un vortice, lento all’inizio e poi
sempre più impetuoso, che avvolge tutto.
Edipo è definitivamente
entrato nell’immaginario collettivo nel 1900, con L’interpretazione
dei sogni. Freud aveva visto bene: le vicende di Edipo ci
appassionano perché in lui vediamo qualcosa di noi. Ma nella
tragedia c’è molto di più che la semplice scoperta delle pulsioni
(desiderio della madre, conflitto con il padre) che si annidano
dentro di noi. Edipo era partito alla ricerca di un assassino e si
era poi messo a indagare sui suoi genitori. Ma il vero obiettivo
dell’indagine è un altro ancora, più profondo: come Diogene
(quello che girava con la lanterna in pieno giorno), Edipo è in
cerca dell’uomo, della sua libertà.
L’indagine
riguarda tutti.
Quando era arrivato a
Tebe, la città era oppressa da un mostro terribile, la Sfinge, che
uccideva chiunque non rispondesse al suo enigma. Edipo aveva trovato
la soluzione, salvando la città. Il mondo, quello degli antichi non
meno del nostro, è opaco, oscuro, ambiguo, sempre rischioso: questo
significa la Sfinge. Edipo è colui che porta la luce, con la forza
della sua intelligenza. È l’eroe dell’età di Sofocle,
dell’illuminismo trionfante ad Atene, «la scuola della Grecia».
Come Protagora sa che l’uomo è misura di tutte le cose, come
Pericle sa che possiamo rispondere alle sfide dell’esistenza. Ha
insegnato che la nostra vita e la nostra felicità dipendono da noi,
dalla nostra capacità di comprendere la realtà, di metterla in
ordine. È un «modello» per tutti, riconosce il coro. Quando si
mette in cerca dell’assassino è questo che vuole dimostrare, una
volta di più.
Il momento decisivo è in
uno scambio di battute con Giocasta. Edipo ha finalmente trovato un
testimone decisivo. Il testimone parla e Giocasta inizia a capire:
che Edipo è l’assassino di Laio; che Laio era il padre di Edipo e
che lei ha sposato suo figlio. Che niente è come sembrava. Prega
Edipo di smettere con le indagini, di fermarsi prima che sia troppo
tardi. Scappa. Edipo si irrita, non comprende la reazione di
Giocasta. Equivoca: pensa che provi vergogna all’idea di aver
sposato il figlio di uno schiavo. Ma a lui questo non importa. Lo
grida gonfio d’orgoglio: non era nessuno ed è diventato il re di
Tebe, grazie alla sua pazienza, alla sua intelligenza, al suo
coraggio. Lui è «figlio del destino», le sue origini non contano.
We can. Ha mostrato di cosa è capace un essere umano.
Non ha capito nulla.
Infaticabile e ostinato, Edipo, l’uomo più intelligente, per tutta
la tragedia non capisce mai nulla, ha sempre vissuto nel buio
dell’ignoranza. Poi, finalmente capisce: precipita nella verità
come in un abisso, è stato detto. L’indagine è conclusa. Maledice
Apollo. Dopo non resta che l’orrore, e il dolore.
Il figlio del destino:
Edipo credeva di essere libero, padrone e responsabile per le sue
scelte. Credeva che la sua vita dipendesse da lui. Ha scoperto che un
destino più grande incombeva sulla sua testa, dominandolo. La
libertà è un’apparenza; la vita di Edipo, il «modello» degli
uomini, era già da sempre costretta in un disegno su cui lui non
aveva nessuna possibilità di controllo. Si è scoperto ingranaggio
di un meccanismo: un meccanismo, imperscrutabile ma implacabile, che
ha il sorriso beffardo di Apollo - i Greci scolpivano le statue dei
loro dèi con un sorriso enigmatico - il dio che illumina, che mostra
come stanno le cose. Sul tempio di Apollo, a Delfi, campeggiava una
scritta celebre: «Conosci te stesso». Edipo ha seguito
l’esortazione del dio, ha indagato se stesso. Quello che ha trovato
riguarda tutti.
In effetti, i problemi
con cui ci confrontiamo oggi non sono diversi. Che cos’è l’uomo?
Quale controllo abbiamo sulle nostre azioni, decisioni, scelte?
Quanto di ciò che ci accade è dovuto a cause che non dipendono da
noi - eventi del passato, condizionamenti sociali, situazioni
impreviste, predisposizioni del carattere? Tanto più conosciamo, di
noi e delle cose che ci circondano, tanto più le domande si fanno
pressanti.
Il parallelo più
interessante è con le neuroscienze. Conosciamo come non mai il
funzionamento del nostro cervello: e quello che sembra emergere è
che non abbiamo un controllo effettivo, consapevole e razionale,
delle nostre decisioni e azioni. «Il tuo senso d’identità
personale e di libero arbitrio in realtà non sono niente più che il
comportamento di un’ampia organizzazione di cellule nervose e delle
molecole loro associate»: questo è Francis Crick, scopritore del
Dna e premio Nobel.
Tutti i nostri stati
mentali sono epifenomeni, spiegano altri scienziati, non esercitano
alcun impatto causale sulla realtà. Che senso ha allora parlare di
libertà o responsabilità? Sarà incredibile, ma è così. E poi, a
pensarci bene, non è neppure incredibile. La rivoluzione
scientifica, fin dal Seicento, ha rivelato che tutto l’universo si
muove secondo leggi necessarie di cause ed effetto.
E Kant aveva posto il
problema, con la consueta chiarezza: per quale ragione gli esseri
umani non dovrebbero essere vincolati a queste stesse leggi di
natura? Cambiano i modi per dire le cose, ma l’ironia è la stessa:
tanto più conosciamo tanto più ci pensiamo grandi; fino a scoprire
la nostra irrilevanza. Come tutto il resto siamo parte di un
meccanismo, di cui ci sfugge il senso, fuori dal nostro controllo.
Ma proprio dove maggiore
sembra la miseria, lì è la nostra grandezza. È vero: ci crediamo
forti e non lo siamo, pensiamo di vedere e non capiamo nulla. Ma non
per questo ci arrendiamo. Siamo sempre in cerca. E in questa continua
ricerca di un significato, nel coraggio con cui affrontiamo le
domande più scomode, costi quello che costi, emerge qualcosa che è
nostro e solo nostro, che ci distingue e ci fa unici nell’universo
immenso che ci circonda. L’uomo, l’animale che fa domande, che
vuole capire.
Fino a che come Edipo non
smetteremo di interrogarci su quello che ci circonda senza
accontentarci delle apparenze; fino a che come Matthäi e Bellodi
continueremo a stare lì, in una piazzola abbandonata, su un pianeta
insignificante, in attesa, cercando di capire e cercando la
giustizia: fino ad allora dimostreremo che siamo qualcosa di
speciale. È buffo, forse folle, ma è così. Ciò che ci fa grandi
non sono le risposte che troviamo, ma le domande che poniamo. È
questo il vero complesso di Edipo.
“Corriere della Sera -
La Lettura”, 3 luglio 2016
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