Pubblicato da Mondadori
nel Meridiano dedicato a Saggi ed epigrammi di
Franco Fortini, questo è il testo riveduto di una conferenza
sul Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Feltrinelli, Milano
1958) tenuta alla Libreria Feltrinelli di Milano all'inizio del 1959.
È una stroncatura durissima, che contiene alcune frecciate gratuite,
ma certamente coglie alcuni limiti artistici, oltre che ideologici,
del romanzo di Tomasi; li enfatizza tuttavia oltre misura, al punto
che non si capisce più se è di quel romanzo che si tratta o di una
sua riduzione per “Selezione del Readers Digest”. (S.L.L.)
La vicenda ha come
protagonista il principe Fabrizio Corbara di Salina, probabile
ritratto di un nonno dell'autore e comunque suo portavoce, gentiluomo
mezzo tedesco e mezzo siciliano, colto, studioso di astronomia,
orgoglioso, raffinato, sensuale, energico, scettico, intelligente,
ateo e osservante, individualista: l'incarnazione dell'animale
araldico della famiglia. La figura centrale, anzi l'uni ca compiuta e
quasi sempre presente, è questa. Il libro il va concentrando sempre
più su di lui, sino al lungo soliloquio sulla morte, diffuso per
tutto il capitolo sesto e settimo. C'è anche chi ha detto (a
cominciare dal Bassani) che, proprio per questa presenza continua del
protagonista, abbiamo a che fare con un lirico e saggista più che
con un narratore; altri ha recisamente relegato come semplici sfondo
l'aspetto "storico" del libro. Si pone qui una prima
domanda: perché questa apparenza di racconto a più personaggi?
Perché questa apparenza di racconto storico? C'è chi risponde
che i residui naturalistici e veristici corretti dall'ironia sono
anch'essi sfondo volto a suggerire che il tema vero è quello della
indifferenza del destino individuale alla storia, a qualunque storia.
Troppo semplice: nella introduzione delle figure minori si
sovrappongono e si elidono, per esempio, intenti diversi. Anzitutto è
sensibile soprattutto nel primo capitolo, il più ornato e letterario
di tutti - l'intento del pastiche, con figure e figurine
convenzionali, da film storico, tutte venute dall'esterno, recensite:
Fabrizio elegante e cinico, la moglie del Gattopardo bacchettona e
gelosa, la figlia Concetta orgogliosa e fredda, gelosa e zittella
predestinata, Angelica sensuale e calcolatrice, padre Pirrone
prudente e ipocrita, il giovane ufficiale buonsensaio e aleardiano,
il funzionario piemontese burocrate e pedante; un coretto di
generici. Difficile distinguere dove cominci l'impotenza narrativa e
poetica e dove finisca l'intento ironico di cincischiare una stampa
ottocentesca. Ma la mancanza di dimensione dei personaggi, il loro
appiattirsi, hanno un altro e più profondo motivo: nella misura in
cui il centro di gravità e il punto di vista del libro è al livello
del principe di Salina, il bisogno di appiattire gli altri non è
dovuto solo al bisogno di rilevare quest'ultimo, ma alla necessità
che i personaggi minori confermino l'ideologia, il modo di concepire
il mondo del personaggio maggiore (e dell'autore). Ora l'orgoglio
intellettuale, l'individualismo scettico e l'identificazione di
moralità e di buone maniere, che sono del Principe di Salina,
avevano assoluto bisogno, per non urtarsi a contrasti e conflitti che
avrebbero imbarazzato il Narratore, di avere a che fare con delle
larve, non con degli esseri umani. Non solo nel capitolo del ballo,
quando i corpi dei danzatori muovono a pietà Salina come quelli di
persone destinate a morire, ma in tutto il libro si suggerisce che
negli altri il Salina, da buon sensuale e astronomo, vede solo
oggetti, cose, animali. I personaggi minori non sono ( come, in un
momento di diminuito controllo, scrive Pampaloni) «le quinte vivide
e fugaci entro le quali corre tumultuosa di affetti la vita di Don
Fabrizio», ma la conditone perché la vita di Don Fabrizio sia priva
di affetti. L'autore insomma, per esprimersi in quanto Salina, ha
dovuto ridurre il mondo, evitargli antagonisti veri, evitarseli.
Quali che siano insomma i motivi di questa convenzionalità dei
personaggi minori (incapacità o estetismo), il loro fine è
apologetico nei confronti di Salina e dell'autore, corrisponde, più
che ad una inadempienza estetica, ad una inadempienza verso la
verità. Che probabilmente sono una medesima cosa.
Altrettanto importante la
scelta del tema storico. Che il Tomasi sia indifferente alle vicende
storico-politiche è stato detto e ridetto. Gli eventi garibaldini
vengono da lui ridotti e ridicolizzati e così le vicende dell'Italia
umbertina. I conflitti sono, come in Gozzano, poco più che battaglie
di formiche rosse e nere. Ma Tomasi aveva bisogno della prospettiva
storica (nascita della borghesia siciliana, declino della
aristocrazia) non tanto perché quegli eventi fossero - come dice
ancora il Pampaloni -«esempi, conferme di una regola ricorrente, di
un modulo storico quasi fatale», perché sempre si vive in un'epoca
di transizione e «i conti dell'uomo con la storia non tornano mai»
- ma perché quel che preme e brucia al Tomasi è il suo presente, il
suo sentirsi biografico di nobile siciliano, di ufficiale effettivo,
di marito di una baronessa baltica e quant'altro si può agevolmente
immaginare, nel corso dell'ultimo cinquantennio. I conti con la
storia, per il Tomasi, sono tutt'altro che chiusi: ecco perché ha
bisogno di ridurre tutto alla sua misura, e di ideologizzare
apologeticamente, sia con l'aiuto di alcune genericità sociologiche
sul sorgere e scomparire delle élites sia con altre
genericità geopolitiche sulla Sicilia e sulle sue vicende. Come
sarebbero altrimenti possibili, proprio a metà del libro, le battute
di discussione con il rappresentante piemontese? Vere di verità
poetica, se descrivessero la fisionomia intellettuale del Salina; ma
esse descrivono invece la fisionomia intellettuale dell'autore. La
interpretazione di «sinistra» tende a mettere in evidenza il
realismo con cui è rappresentato il compromesso fra vecchie e nuove
classi dirigenti, fra cavourriani ed ex borbonici ai danni della
causa democratica, il «bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga
lo stesso», come puro cinismo.
Nessun dubbio che, fra
cinquanta o sessantanni, uno storico potrà trovare in quest'opera
l'obiettivo riflesso dei conflitti di classe nella Sicilia fra il
1940 e il 1960 visti attraverso quelli di un secolo prima. Ma mi par
difficile invocare a favore del Gattopardo il trionfo del realismo
caro a Lukàcs: non c'è in tutto il libro un solo momento nel quale
sia obiettivamente superato il punto di vista ideologico dell'autore.
Non abbiamo a che fare qui con il conservatore Verga che in Mastro
don Gesualdo e nella sua storia di ambizioni sbagliate e
sconfitte rappresenta ed esalta un ordine di valori inconciliabili
con quelli della conservazione o che in un suo famoso racconto fa
esplodere il conflitto fra l'abortita insurrezione antifeudale e
l'ordine garibaldino-piemontese. Inutile sprecare l'aggettivo
"reazionario", per Tornasi. Quel che c'è di meno
reazionario in lui è, semmai, la difesa dei valori aristocratici
quale viene pronunciata per bocca di Don Pirrone. Ciò non toglie che
si possa sottovalutare l'importanza della cornice storica. Il
giudizio negativo su quel momento centrale del nostro risorgimento
nazionale è, sì, storicamente fondato; ma ha una funzione
ideologica ben precisa: l'apologia del "sempre eguale" a
partire dal sempre diverso.
Sarebbe assurdo e
ingiusto negare certe qualità di quest'opera. L'allegria o la
cupezza delle descrizioni - soprattutto quando non vogliono strafare
- la sensibilità umoristica e urbana, come nella scena del bagno del
Salina o dell'ingresso di Fabrizio avvolto nella mantella di
ufficiale piemontese e in tanti altri passi, il gusto della
transizione, ad esempio nel dialogo del principe di Salina con
l'organista don Ciccio Tumeo; l'intelligente scelta delle situazioni,
delle quali tre almeno esemplari, quella ora rammentata, quella fra
il principe e Sedàra per combinare il fidanzamento, e quella fra il
principe e il colonnello Pallavicino. Esente dai vizi correnti di
tragicismo, crudelismo, sciatteria o stravaganza, il libro ha una sua
architettura rigorosa: basti pensare alla pausa rappresentata dal
capitolo di Don Pirrone, che toglie di scena il principe Salina e
aggiunge un elemento fondamentale al quadro, rappresentando
l'identità sostanziale dei problemi al livello della aristocrazia e
a quello dei cafoni (classi fra le quali è mediatore il sacerdote).
Il meglio è forse nei rapidi affondi verso il futuro, che fanno
intravedere in un lampo i decenni avvenire, Angelica tramutata in
viperina Egeria di Montecitorio e della Consulta, Concetta risecchita
pinzochera, gli affreschi palermitani distrutti nel '43. Persino le
pagine false e stucchevoli dei due innamorati perduti nel labirinto
di stanze del palazzo di Donnafugata, hanno qualche punto di pungente
bellezza, come nell'episodio del carillon settecentesco e della
"gaiezza disillusa" di quella musica, formula che si adatta
benissimo ad un aspetto importante della poetica di Tornasi di
Lampedusa. Ad una prima lettura, ad esempio, l'evocazione
dell'appartamentino dei piaceri crudeli del sadico antenato
settecentesco e quella delle stanze d'una più remota fustigazione
cristiana potevano sembrare losche e un po' oziose variazioni
letterarie. Ma poi si vede quanto siano invece importante elemento,
per dir così, etimologico di Salina (e di Tornasi di Lampedusa).
«Senz'altre riserve che quelle del gusto - dice qui bene il critico
più volte citato - il Tomasi appartiene al mondo del decadentismo
"classico", esistenziale e laico.» E non bisogna tacere
del capitolo del ballo, con la sua accurata preparazione,
progressione, partizione e soluzione che, sebbene preceduto e
accompagnato da una quantità di esempi letterari, è una Totentanz
esemplare. Una scrittura di livello medio-alto, alla quale si può
perdonare l'aspetto compiaciuto, laccato, mantecato come certe torte
siciliane, piene di uvette, pistacchi e canditi, dolce al limite
della nausea. Ad esempio, e fin dalle prime pagine: «il continuo
fluire delle sonagliere, che ormai non si percepiva più se non come
manifestazione sonora dell'ambiente arroventato... paesi dipinti in
azzurrino tenero, stralunati... ponti di magnificenza bizzarra...
fiumare integralmente asciutte».
Continuamente, grazie
all'intervento critico-ironico, la volontà espressionista si allea
ad una intenzione sliricizzante («manifestazione», «magnificenza»,
«integralmente»). Alleanza perigliosa, quando si cade ad esempio in
«quegli alberi assetati che si sbracciavano...» o, poche righe più
sotto, nella grave ironia di «un enorme fabbricato abitato da
braccianti, muli e altro bestiame». La contraddizione stilistica del
libro mi pare insomma risieda in questo: la forma mentis
ironico-epigrammatica, con la sua velocità e mobilità, mal si
accorda alla densa materia delle descrizioni compiaciute, fastose e
mortuarie. La gaiezza disillusa, fondata su scoscendimenti di livello
linguistico, allusioni urbane, "esprit" insomma, funziona
benissimo quando opera nel quadretto storico; ma quel passo,
quell'andatura fra settecentesco e libertino o meglio fra Anatole
France e Maupassant, mal si lega con le esigenze di una narrativa che
abbia veramente come propria meta i modelli del decadentismo. Anche
Proust è spesso agilissimo e scintillante di spirito; ma è la lenta
avvolgente seta dei suoi periodi quella che (come, altrimenti, anche
in Mann) finisce col dare straordinarie obiettive presenze fisiche e
morali. Qui invece il paesaggio siciliano, col suo lutto e le sue
stoppie, la bellezza di Angelica, o le dimensioni leonine del
principe son più dette che rappresentate. Troppo asciutta
razionalità aristocratica per quei brividi cadaverici. Questa prosa
finisce col far pensare spesso a qualcosa di fabbricato. Tomasi non
si è deciso fra un "tempo" veloce e un "tempo"
lento.
Il libro sembra scritto
per deliziare il villan rifatto che sonnecchia entro ciascuno di noi;
sentirsi dentro "il gesto sempre elegante dell'intelligenza",
nella "squisita discrezione". (La vera volgarità, ho
sempre pensato, consiste nel credere di non poter esserne fuori se
non definendo volgari altri, lontani e diversi.) Voglio dire che le
continue lezioni di belle maniere che imperversano nel libro, il
tatto, l'inespugnabile cortesia, la rapida adattabilità, la
penetrazione mondana, l'arte innata della sfumatura, il saper vivere,
il gusto gastronomico, eccetera, sono debolezze perdonabili in
Salina-Tomasi ma assai meno nei critici che se ne deliziano; e
tocchiamo qui una delle più vili ragioni di successo del libro.
Tornasi di Lampedusa, a
dir vero, avverte per un attimo la povertà del suo personaggio nello
splendido incontro col colonnello Pallavicino, quando i
rappresentanti delle due dinastie comunicano nel culto delle buone
maniere e della retenue. Solo che questa indulgenza
dell'aristocratico intelligente nei confronti di un eguale di classe,
indulgenza che egli, l'aristocratico, avverte come una necessaria
debolezza (e di cui Proust ci ha così meravigliosamente parlato), e
anche come una non vile solidarietà, nel libro di Tornasi non agisce
solo a favore del Pallavicino e ad opera del Salina, bensì a favore
del Salina e ad opera del Tornasi. L'autore difende insomma il
personaggio e se stesso. Ecco perché, si direbbe, i critici che per
Salina e Lampedusa parlano di "gran signore" non sanno,
alla lettera, quel che si dicono. Il "gran signore" è una
nozione borghese, non occorre dirlo; è l'ideale borghese per
eccellenza e si fonda, in chi lo coltiva, sul sogno di un distacco e
di un disinteresse che non può (economicamente) realizzarsi.
Probabilmente era necessaria l'esistenza della piccola nobiltà di
provincia (e della noblesse de robe) nella Francia dell'età
classica, perché nascesse la nozione moderna di "gran signore".
E ci si vergogna di dover ricordare che non esistono davvero i grandi
signori ma semmai i grandi uomini, che Manzoni non era un "gran
signore" ma qualcosa di più, e che Tolstoj lo era solo quando
si dimenticava di aver scritto i suoi libri, vale a dire quando
passava superbamente a cavallo davanti ai granduchi Romanov (o forse
quando allungava le mani sulle serve, nei corridoi degli alberghi
svizzeri).
Bisogna a questo punto
dire che un libro come questo è proprio caduto dal cielo, fatto a
pennello per una situazione letteraria come quella italiana.
Sorvoliamo su tutto il patetico e il drammatico del gentiluomo
siciliano che muore dopo aver finito il capolavoro, che chiude gli
occhi senza la gloria, riservato ed elegante: che tema per i
rotocalchi! Questa straordinaria, misteriosa Italia che nel fondo
della sua provincia... e la storia del cugino Lucio Piccolo che con
la complicità di Eugenio Montale (al quale perdoniamo difficilmente
le debolezze verso i "veri signori") è diventato il
barocco poeta di Capo d'Orlando, che Bassani promuove a massimo
lirico dei nostri anni; e altre baronesse, principesse e figlie di
Benedetto Croce sullo sfondo. La manna pubblicitaria è raccolta
accortamente, nulla di male, il Gattopardo non è Bonjour
tristesse della Sagan, per sua fortuna, anche se la
Weltanschauung della ragazza francese e quella del gentiluomo
siciliano hanno un comune albero genealogico. Ma c'è qualcosa di
più: il libro è, come si usa dire, "ben scritto", giuoca
su di un tema eternamente caro (il rapporto nord-sud), è sensuale ma
non azzardato, scettico ma mortuario, gentilomesco, lievemente
libertino; da l'impressione, anche a chi crede di non intendersene,
dell'opera d'arte. Ed è, o sembra, di destra. Fa l'elogio del sempre
eguale. È una Sicilia senza astratti furori, e senza sindacalisti.
Ma, soprattutto, dà l'impressione del già letto, del già pensato,
del già saputo. Tutta la neoborghesia italiana, figlia o nipote
dell'Italia che aveva avuto fin verso il 1930 una letteratura
borghese (da Beltramelli a Fanzini e magari da Pirandello a
Bacchelli), interrotta dall'ermetismo prima e dal neorealismo poi,
respira. Indipendentemente dai giudizi di valore, la letteratura
italiana riproduce periodicamente questi casi di letteratura
"accettata". Il libro capita poi in una particolare
contingenza della cultura italiana: trionfo di una destra letteraria
composta in gran parte di elementi della ex sinistra. Concorrono i
più diversi elementi: la polemica contro l'avanguardia condotta da
un critico come Cesare Cases in nome del realismo critico, quella in
nome della fantasia e della finezza che risuonano, diversamente,
nelle pagine di Calvino o dei recensori di «Paragone», la bandiera
della filologia fisiologica e i del clic magico alla Pietro Citati,
la rivalutazione dello spiritualismo degli anni Trenta, le forme
vulgate del religiosismo semisociale; tutta l'Italia culturale che,
in un modo o in un altro, si è seduta, certa che la rivoluzione è
stata proibita per ordine dei comunisti e della televisione, persuasa
che nulla muterà, salvo alcune riforme di dettaglio o confirmatorie,
l'Italia culturale che fra poco si chiederà "Gramsci, chi era
costui?" e che già trova nel marxismo una vecchia favola,
insomma l'Italia alla Elémire Zolla, che si angoscia orficamente
sulla cultura di massa e si salva col più reazionario dei precetti,
ossia sustine et abstine, tutta questa Italia ha creduto dapprima di
rispecchiarsi nel Pasticciaccio di Gadda, ha sobbalzato di
gioia e di rimorso leggendo Il dottor Zivago, ma si è
riconosciuta solo nel Gattopardo; ha goduto di questo odore di
dente cariato. Non che questi critici siano del tutto in buona fede;
non escluderei anzi che alcuni segni di cafard après la fete
comincino già a manifestarsi. Ma quel che preoccupa è il
significato di politica culturale che il successo ha conferito a
questo libro. E a chi ci obiettasse che dopotutto si tratta di un
"ottimo libro" - cosa che ci guardiamo bene dal negare - e
che capita molto di rado di leggerne così; e a chi ci dicesse che
dopotutto non esisteva in Italia un libro di questo tipo che,
eccetera, verrebbe voglia di chiedere se costui ha mai letto Italo
Svevo.
Ma è tempo di prendere
il Gattopardo per i baffi. Non si tratta più di discutere
soltanto della qualità letteraria del libro.
Il critico Pampaloni ha
una notazione estremamente acuta, l'unica che accetto intera di quel
suo saggio «funereo e festoso, luttuoso e inebriante» com'egli dice
sia il motivo della morte nelle pagine del ballo; anche se, come si
vedrà, lo accetto solo col segno cambiato. Ed è quando, parlando
della segreta irrequietezza che compare di tanto in tanto nel
principe di Salina, lo dice «ansioso di un esito e - istintivamente
cosciente della sua inadempienza verso la verità» (a p. 104, ad
esempio). Certo questa «inadempienza verso la verità», questa
impossibilità, di Salina, di sentirsi pienamente d'accordo con se
stesso (anche nell'orgoglio e nella difesa dei propri valori) che
balena qua e là e tende sempre ad esprimersi come desiderio di
annullamento "pulito", nelle stelle; o che più spesso si
limita al senso del disfacimento e della putredine: questo è il vero
tocco geniale del libro. In Salina non compare mai la prospettiva del
divino (che sarebbe la "verità" del nostro critico
cattolico) né tanto meno quella di un superamento dell'individuale;
come giustamente osserva il critico, non c'è in lui nemmeno la
religione laica. Per questo il Gattopardo è il romanzo di un
radicale di destra.
Ma così esigui sono
questi attimi, così fuggevoli. E soprattutto sono a tal segno
affidati piuttosto al tedio e fastidio o alla pietà dell'unico
personaggio che non ad un rapporto fra personaggi o fra personaggi e
cose, che è forza concludere che quella inadempienza verso la verità
è anzitutto dell'autore. Né Salina né Lampedusa giungono mai (o
appena nel dialogo con Chevalley) a presentire il rapporto degli
uomini fra loro, quella interumanità, o interrelazione che dà un
così solenne significato alla parola storia e che, mediata dal più
alto romanticismo, nel pensiero rivoluzionario trasferisce verso la
metà del secolo scorso l'eredità del maggior pensiero borghese e
cristiano tanto da passare, in forme certo confuse o provinciali,
perfino attraverso il generale Garibaldi. La pietà, in
Salina-Lampedusa, è invece e appena l'armonico dell'accordo
erotismo-morte. Non dimentichiamo che per tutti quei cattolici o
semicattolici che oggi vanno tanto d'accordo con i liberali laici e
gli scettici nell'elogiare questo libro è molto più agevole e
facile l'ateismo di Salina-Lampedusa, visto, dalla parte della «Bella
immortai benefica / Fede ai trionfi avvezza», attraverso la pietà e
il gusto della cenere, che non passare dallo scetticismo alla
persuasione (o fede, se così la si vuoi chiamare) nella
corresponsabilità degli uomini. Quanto sono più vicini il libertino
razionalista scettico sensuale astronomo e feudale Salina e lo
scettico irrazionalista e freudiano letterato Tomasi, con la loro
difesa dell'individuo, alla Chiesa di Pio XII che non a qualsiasi
altra posizione spirituale e pratica! Il rifiuto della storia che c'è
in questo libro non è rifiuto di questa o quella storia ma rifiuto
del mutamento in sé. Anzi quel che Salina e Tomasi rifiutano non è
nemmeno il cambiamento, né tanto meno il loro cambiamento; Salina si
adatta abbastanza bene, la propria decadenza fisiologica la sopporta
benissimo, e non si capisce poi che cosa abbia da rimpiangere, se
tutto seguita come prima, e quasi nulla ci viene detto dei primi
quarant'anni di vita, del perché dei suoi studi, fuor di qualche
accenno ad erotiche disposizioni favorite dal buon bere e dal buon
mangiare. Quello che i nostri personaggi e il nostro autore rifiutano
sono «gli altri», tutti presentati come meschini e ciechi, salvo
forse quel figlio appena nominato, che se ne è andato a Londra a
lavorare come impiegato in una azienda di carboni; e al quale va
tutta la nostra simpatia. È vero che l'autore ha avuto il lampo di
genio di presentarci come relativamente cieco o sordo anche il suo
eroe. Ma per trarre tutta la edificazione possibile da questo
exemplum, bisogna esser noi a introdurre un elemento di
giudizio, estraneo al libro. Se la morale del libro è che la vita è
un torbido male, bisogna ben dire che il sangue dell'avo sadico e
quello dell'avo santo flagellante si sono ben uniti in quello del
Salina (e dei Lampedusa). E a questo punto non si tratta nemmeno di
opporre un'altra concezione della vita e del mondo a questa loro; ma
di dire che non si deve far sopportare a questo libro più di quello
che esso può; e che esso non può darci né saggezza né tragedia.
In Franco Fortini, Saggi
ed epigrammi, Mondadori, 2003
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