Conquistate di fatto le
rispettive nomination, sul piano finanziario Donald Trump e
Hillary Clinton non partono alla pari. Anzi, in questa fase paiono
alquanto distanti. Per il magnate newyorkese l’imperativo massimo è
trovare i soldi per affrontare l’elezione generale, l’ex first
lady invece dispone già di una straordinaria macchina
finanziaria.
Trump manca del sostegno
di molti oligarchi conservatori e non sembra capace di vincerli alla
causa. La Clinton ha dalla sua tutti i megadonors storici
della sinistra. Vantaggio potenzialmente decisivo, perché le cifre
necessarie per giungere alla Casa Bianca non sono paragonabili a
quelle spese durante le primarie.
Finora Trump ha surrogato
tale mancanza con la sovraesposizione mediatica e il patrimonio
personale, ma senza il simpatetico intervento di finanziatori esterni
rischia di non essere competitivo. Proprio mentre la sua sfidante
prova a sfruttare la delusione dell’establishment conservatore per
aggiudicarsene l’appoggio. In una fase destinata ad avere un
impatto decisivo sulle possibilità di vittoria.
***
Le dimensioni elettorali
di primarie e votazioni generali sono assai diverse. Alle
consultazioni partitiche partecipano solitamente circa 40 milioni di
cittadini – nel 2016 probabilmente si raggiungerà la cifra record
di 50 milioni – in un Paese abitato da oltre 300 milioni di
persone. Mentre alle presidenziali del 2012 hanno votato 126 milioni
di elettori.
Non solo. Gli americani
che si esprimono alle primarie hanno un approccio ideologico alla
politica e se ne interessano indipendentemente dalla capacità dei
candidati di attirarne l’attenzione. Per conquistare il loro voto
può bastare sconfiggere dialetticamente gli avversari o occupare con
assiduità gli spazi televisivi. Già predisposti verso la liturgia
elettorale, questi necessitano solo di un nome da sostenere o da
osteggiare. A livello generale invece gli americani mediamente non si
curano della politica. Per ragioni scientifiche e di conformazione
della società d’oltreoceano.
Preoccupati di impedire
il replicarsi nel Nuovo Mondo delle distruttive passioni europee –
proposito beffardo per chi era comunque alla testa di una rivoluzione
–, i padri fondatori della repubblica crearono un’architettura
istituzionale barocca e mediata che impedisse ai cittadini di
appassionarsi alle vicende pubbliche e producesse diaframmi pressoché
insormontabili tra loro e i professionisti della politica.
Non a caso da queste
parti le elezioni si svolgono di martedì, giorno feriale che a fine
Settecento precedeva il mercato. Inoltre per dimensione geografica e
sviluppo storico, la vitalità economica e demografica del Paese da
sempre si palesa a distanza e a dispetto di Washington, delle cui
beghe ignora l’esistenza.
Ne deriva che il voto
negli Stati Uniti è un atto eminentemente volitivo (e filtrato). A
differenza dell’Europa, la campagna elettorale si svolge dal basso
verso l’alto. È necessario coinvolgere porta a porta i cittadini,
prima persuadendoli a registrarsi per le elezioni, quindi a recarsi
fisicamente alle urne. Non bastano gli spot televisivi o i dibattiti
pubblici.
Nello heartland
americano l’unica politica partecipata è quella locale. E ogni
quattro anni i politici nazionali devono convincere i loro
concittadini che le questioni di cui trattano li riguardano
realmente. Dalla politica fiscale a quella estera, passando per il
welfare. Processo estensivo che richiede la creazione di
comitati politici sullo sterminato territorio del Paese. Stato per
Stato, contea per contea.
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In nuce: per imporsi
nelle presidenziali è necessario disporre di cifre astronomiche. Nel
2012 il campo di Barack Obama e quello di Mitt Romney sborsarono
circa un miliardo di dollari ciascuno e secondo le previsioni
quest’anno la Clinton dovrebbe spendere quasi la stessa somma.
Una soglia inquietante
per Trump, che ha devoluto “appena” 49 milioni di dollari alla
fase preliminare delle presidenziali, di cui 46 di tasca propria.
Molto meno della stessa Hillary, che ha speso nelle primarie 182
milioni, di cui 151 milioni raccolti direttamente e 31 provenienti da
finanziatori esterni. Decisamente meno anche di Bernie Sanders (164
milioni); Jeb Bush (137 milioni di dollari, di cui 103 forniti da
oligarchi); e Ted Cruz (112 milioni, 42 da gruppi esterni).
In questi mesi Trump ha
sopperito all’assenza di fondi stimolando, soprattutto attraverso
le televisioni, la pancia dei suoi sostenitori che, già
politicizzati in partenza, ne hanno abbracciato il messaggio quasi in
automatico. Ma per sperare di vincere ha bisogno adesso di condurre
alle urne milioni di bianchi normalmente avulsi dalla politica, e
dunque di accedere a maggiori risorse finanziarie.
Di certo il tycoon
newyorkese non ha intenzione di saccheggiare il patrimonio personale
di circa 4,5 miliardi di dollari. Né i figli glielo consentirebbero.
Per questo ha cominciato a rivolgersi ai principali finanziatori
repubblicani, nel tentativo di corroborare il suo fundraising.
Incontrando alcune porte aperte, ma anche molte porte chiuse.
Nelle ultime settimane si
sono ufficialmente schierati dalla sua parte alcuni tra i più
influenti oligarchi conservatori. Su tutti: il fondatore di Home
Depot Ken Langone, il re dei casinò Sheldon Adelson, l’imprenditore
televisivo Stanley Hubbard. E, come segnalato dall’endorsement di
Reince Priebus, ora può contare sul Comitato nazionale repubblicano
che ha in cassa circa 100 milioni di dollari e nei prossimi mesi
metterà a sua disposizione ulteriori fondi.
Tuttavia gli restano
ostili molti pesi massimi legati all’establishment repubblicano. A
partire dal network della famiglia Bush – da Mike Fernandez ai
petrolieri texani T. Boone Pickens, Ray Hunt, Annette Simmons – che
non pare intenzionato a sostenerne la candidatura. Specie dopo la
negativa presa di posizione di Bush padre, George W. e Jeb. Così
come gli industriali degli idrocarburi Charles e David Koch, storici
finanziatori della campagna di Mitt Romney e in assoluto i più
munifici del fronte repubblicano, che nelle ultime settimane hanno
speso circa due milioni di dollari proprio in spot anti-Trump. Quindi
i principali manager di Wall Street (vedi box). Ed è qui che per il
candidato repubblicano la situazione si complica notevolmente.
Anzitutto perché la
Clinton può contare su un fundraising formidabile, alimentato
dai principali oligarchi della sinistra. Tra gli altri: il
celeberrimo George Soros, che nel 2012 orchestrò profumatamente la
conferma di Barack Obama; Tom Steyer, manager di hedge fund
con un patrimonio personale di 118 miliardi di dollari; Jeffrey
Katzenberg, amministratore delegato della Dreamworks; Irwin Jacobs,
fondatore di Qualcomm; Haim Saban, produttore televisivo e in passato
proprietario di Abc Family.
***
Inoltre la candidata
democratica ha cominciato a corteggiare i finanziatori che si
mostrano scettici nei confronti del rivale. Il messaggio è chiaro:
in materia di assistenza sanitaria, politica commerciale e
interventismo militare, l’ex first lady è maggiormente in
linea con l’ortodossia repubblicana di Trump. A parte il caso di
Ralph Herzka, noto manager di Wall Street che ha appena cambiato
fronte, i donor della destra paiono ancora indecisi e
potrebbero comunque rifiutarsi di supportare un’esponente
democratica, ma l’offensiva della Clinton potrebbe centrare il
duplice obiettivo di rallentare il processo decisionale degli
oligarchi e incrementare l’aura di inevitabilità di una
candidatura tanto spavalda da invadere il fronte altrui.
Elementi e connotati di
una competizione che è soprattutto finanziaria, giacché gli
sfidanti necessitano di enormi somme per comunicare agli elettori la
propria esistenza. Contrariamente a ogni previsione, Trump è stato
fin qui molto credibile nel cavalcare la rabbia della classe media
bianca, declinata in nativismo e semi-isolazionismo. Temi
ciclicamente ricorrenti nella storia politica degli Stati Uniti. Ma
per conquistare la Casa Bianca deve persuadere i suoi potenziali
elettori a tramutare l’insofferenza in voto. Raggiungendoli nei
villaggi e nei luoghi di lavoro, attraverso comitati e spot
acquistati sulle migliaia di radio e tv locali.
Stesso discorso per la
Clinton che inevitabilmente punterà sul carattere maggiormente
inclusivo della sua campagna e sulla presunta pericolosità dello
sfidante. Rivolgendosi soprattutto all’elettorato etnico che, in
molti casi, non si è mai recato alle urne e deve essere motivato al
punto da richiedere la cittadinanza e registrarsi per il voto.
Imprese che richiedono uno straordinario dispendio di mezzi.
Possibile soltanto per il candidato che si rivelerà meglio
finanziato.
Pagina 99, 7 maggio 2016
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