Mohammad Sidique Khan, il
leader dei quattro kamikaze che il 7 luglio 2005 si fecero esplodere
a Londra in quello che è ricordato come “l’11 settembre del
Regno Unito”, decise di rimandare di un giorno l’attentato per
accompagnare in ospedale la moglie incinta. È un particolare che
stride con la rappresentazione ancora troppo diffusa dei terroristi
come psicopatici o sadici assassini e che fa sorgere una domanda
ovvia: cos’è che spinge uomini (e donne) apparentemente ordinari a
commettere atti così atroci? Il magazine “Scientific American
Mind” dedica un numero speciale in uscita a maggio per rispondere a
questo interrogativo facendo riferimento alle ricerche più recenti.
In un report dal titolo
The Psychology of Terrorism, la rivista statunitense illustra
i risultati delle indagini più accreditate a disposizione per
comprendere i meccanismi che portano al fanatismo e come mai negli
ultimi cinque anni i gruppi jihadisti in Siria e Iraq sono riusciti a
reclutare circa 30 mila foreign fighters.
Un primo fatto assodato è
che non ci troviamo di fronte a dei mostri. Come sostengono nel loro
contributo gli psicologi sociali S. Alexander Haslam e Stephen
Reicher, da un punto di vista psicologico la maggior parte degli
aderenti a gruppi radicali non sono molto diversi dai volontari
americani che parteciparono circa quarant’anni fa allo studio,
diventato poi famoso, noto come l’esperimento della prigione di
Standford.
Si trattò di una
controversa ricerca svolta nel 1971 nei sotterranei dell’università
californiana per cercare di comprendere cosa succede a della “brava
gente” messa in un posto “cattivo”. L’indagine, condotta
dallo studioso Philip Zimbardo, prevedeva l’assegnazione dei ruoli
di guardie e prigionieri all’interno di un carcere simulato. I
risultati furono da subito drammatici. Dopo pochi giorni iniziarono
violenze, soprusi, umiliazioni. Studenti “perbene”,
psicologicamente sani, si trasformarono rapidamente in crudeli
aguzzini. Seppur molto criticata sul piano metodologico e soprattutto
su quello etico, la ricerca segnò un passaggio importante nello
studio di come certe situazioni sociali e specifiche dinamiche di
gruppo incidano sulla genesi di comportamenti violenti.
Rispetto a questi lavori,
le prospettive di ricerca attuali hanno focalizzato lo sguardo sui
processi di radicalizzazione nei contesti di vita reali e non in
situazioni simulate.
L’antropologo Scott
Atran ha dedicato buona parte della sua vita professionale a
intervistare in profondità terroristi, jihadisti ed estremisti di
mezzo mondo per giungere alla conclusione che le radici della
violenza in queste persone non vadano trovate in qualche intrinseco
difetto della personalità, ma nel senso di appartenenza a una
comunità che si ritiene umiliata e marginalizzata. Come descritto
nel volume Talking to the Enemy, scritto da Atran nel 2010, i
terroristi di solito non sono né folli, né poveri, né tanto meno
ignoranti. La chiave di interpretazione più corretta, sostiene lo
studioso, è piuttosto considerarli una “banda di fratelli”
idealisti, uniti da forti legami di amicizia e da una causa ritenuta
nobile e giusta, disposti al sacrificio estremo per contribuire
all’affermazione di un futuro finalmente radioso, almeno dal loro
punto di vista.
A dimostrazione di quanto
l’azione terroristica sia guidata da dinamiche di gruppo fortemente
influenzate dall’identità sociale e iscritte in un disegno
palingenetico, l’anno scorso Shahira Fahmy, studiosa di giornalismo
araba-americana dell’Università dell’Arizona, ha svolto
un’analisi sistematica della propaganda dell’Isis dimostrando
che, al contrario di quello che appare nelle televisioni o nei
giornali occidentali, la violenza è quasi del tutto assente nella
produzione mediatica dei leader del terrore. La loro comunicazione è
popolata invece da visioni di un «idealistico Califfato» dove
finalmente tutti i musulmani potranno vivere armoniosamente. Come
descritto nella ricerca di Fahmy, le più significative immagini
comparse nelle pubblicazioni dello Stato Islamico tra il 2014 e il
2015 evocavano il senso di appagamento derivante dalla vita nel
Califfato. Una, per esempio, tratta da “Dabiq”, un magazine
tradotto in varie lingue, incorporava il testo Al-walaa wa-l-baraa
(lealtà e diniego), un riferimento al concetto islamico di
amicizia messo a confronto con il razzismo in America. Vieni a vivere
con noi, era il senso del messaggio, è troverai l’utopia in terra.
Più che consolazione e
supporto, sono quindi le narrazioni a giocare un ruolo cruciale nelle
attuali strategie dei capi delle organizzazioni terroristiche. Il
riconoscimento della loro autorità passa per la formulazione di
promesse di una società migliore necessarie a costruire un’identità
condivisa e a fornire cornici d’interpretazione della realtà per i
reclutati, che per altri versi non rispondono a disegni orchestrati e
rigidamente pianificati dall’alto.
Nel suo libro del 2004
Understanding Terror Networks, lo psichiatra forense Marc
Sageman sottolineava che «i mujahedin fossero killer entusiasti e
non robot che agivano in risposta a pressioni sociali». Più che
come reazione a rigide catene di comando, è più frequente che i
terroristi agiscano trovando modalità uniche, individuali e
innovative per perseguire le proprie finalità, secondo quella che
alcuni studiosi hanno definito «un’anarchia organizzata».
La lezione più ampia
delle ultime acquisizioni della psicologia del terrorismo è che il
processo di radicalizzazione non avviene in un vacuum, ma è
determinato da contrasti tra differenti gruppi sociali che le voci
più radicali cercano in tutti i modi di sfruttare per renderli
inconciliabili. In questo senso gli estremisti islamici e gli
islamofobici sono due facce della stessa medaglia, indispensabili gli
uni agli altri dato che, come dimostrato dai già citati Reicher,
Haslam e altri colleghi, si tende con più probabilità a sostenere e
seguire un leader bellicoso, rispetto a uno moderato, se il gruppo
sociale in competizione con il nostro sembra manifestare
comportamenti aggressivi. È il cosiddetto ciclo della
co-radicalizzazione, che dimostra quanto il terrorismo abbia a che
fare soprattutto con la polarizzazione delle posizioni e con la
conseguente riduzione della “zona grigia” di una coesistenza
costruttiva. Le possibili soluzioni per sfuggirvi, sintetizzano gli
autori, dovranno riguardare per questo motivo «tanto “noi”
quanto “loro”» e considerare la capacità di elaborare
contro-narrazioni efficaci.
Pagina 99, 9 aprile 2016
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