Il mese scorso, in
occasione della morte di Muhammad Alì “Avvenire” lo ha ricordato
- tra l'altro - con un articolo di Alberto Caprotti molto
coinvolgente. Ne posto qui un ampio stralcio. (S.L.L.)
Tremava come un budino
mentre provava ad accendere l’Olimpiade. Gonfio, spiritato,
morsicato dal Parkinson che non gli ha chiesto chi fosse prima di
iniziare a prenderlo a pugni. Certe malattie sono vigliaccamente
ignoranti: dovrebbero sapere prima di aggredire. Dovrebbero
informarsi, per rispetto di chi hanno deciso di distruggere. Magari
cambierebbero idea. Magari. Ci vuole cuore comunque per presentarsi
così. Ci vuole tanto amore per se stessi, per il messaggio che si
vuole ancora spedire al mondo. Che in quella notte di fuochi ad
Atlanta 1996 avrebbe voluto aiutare il suo eroe stanco.
Era uscito dal letargo
Muhammad Alì, ma non poteva svegliarsi del tutto. Un orso
telecomandato al quale avevano chiesto di accendere la fiaccola di
Olimpia. Per la prima volta nella storia dei Giochi, l’ultimo
tedoforo non arrivava di corsa, ma barcollando. Non aveva muscoli, ma
occhi spenti dalle medicine. Non aveva bisogno di avere futuro, ma
viveva del suo straripante passato. Può bastare, per qualcuno. Per
chi, anche se non ce la fa più a dire, ha ancora maledettamente
tanto da dare. Eccolo “The greatest”, il pugile più grande della
storia se ne va, dopo aver commosso prima per la sua forza e poi per
la sua disarmante debolezza. L’America dei rimorsi si ricaccia le
lacrime in gola e capisce che ci sono momenti che ancora fanno
battere il cuore per qualcosa che non sono le strisce della bandiera
o la paura di una bomba. E si sdraia ai piedi di questo monumento di
resistenza umana, il suo padre nero, il ribelle storico, il soldato
che non volle andare a uccidere i vietcong, il testardo musulmano
fuori dal mondo e fuori dal tempo che in un altro tempo ha ripudiato,
amato, sopportato, tradito. Muhammad Ali non è più nulla di quello
che è stato. Ora paradossalmente è molto di più. Adesso ha la
faccia dell’amore stampata sotto gli occhi liquidi, quell’amore
che regali volentieri quando la compassione supera tutto.
Ci ha lasciati ieri per
una crisi respiratoria, appesantito dalla vita, intontito dai
cazzotti inutili presi per poter finanziare la sua causa [...]
Questo ex nemico
dell’America, il fuorilegge che convocato in caserma il 28 aprile
del 1967 per essere arruolato nella guerra in Vietnam, malgrado tre
anni prima lo avessero destinato ai servizi sedentari, rifiutò
recitando una poesia perché lui contro quei musi gialli non aveva
niente. E che quando gli chiesero se aveva capito bene cosa voleva
dire rifiutare l’arruolamento, rispose “benissimo”. Si prese
l’equivalente di 10 milioni di euro di multa, e cinque anni di
carcere.
Ne aveva 25 di anni in
quei giorni il giovane Alì, battezzato Cassius Marcellus Clay, nato
a Louisville come un altro grande nero della storia. Ma quella non
era la sua musica, non era la sua guerra. E nemmeno il suo nome.
Aveva un’altra battaglia da fare, un’identità da cambiare, un
conto da pagare, un ruolo da rivoluzionario da difendere, un’altra
religione da abbracciare. Un fenomeno sul ring, un diavolo fuori. Uno
che si accanì su Ernie Terrel che per irriderlo durante un match
continuava a chiamarlo “signor Clay”. Dopo ogni pugno, lui
aggiungeva una domanda: «Come hai detto che mi chiamo, fottuto
bastardo?». Uno a cui il Ku Klux Klan mandò i sicari a casa, a
scaricare i fucili sul portone. Uno che è stato amico di tutti
quelli che non piacciono all’America, soprattutto quella bianca:
Malcom X, Saddam Hussein, Fidel Castro. Che pregava la benedizione di
Allah prima di infilare i guantoni. E che ha sopportato anche il
furto più ingiusto: quello del tìtolo mondiale. Gli presero pure
quello, dichiarandolo decaduto. Troppo indegno lui per poterlo
mantenere, troppo terrorizzata la societàin cui viveva per
consentire che l'uomo che prendeva a cazzotti il mondo potesse anche
parlare e dire cose che facevano male.
Non è stato un santo
Alì, ha picchiato con cattiveria anche fuori dal ring. E ancje chi
non se lo meritava. Negli anni ha fatto ammalare di depressione una
moglie che tradiva con la naturalezza con cui ballava davanti agli
avversari, ha divorziato da un’altra perché non accettava di
mascherarsi il viso come impone l’islam, ha contribuito a fare
eleggere un governatore corrotto solo perché così gli aveva chiesto
Don King, suo potente e smaliziato manager di allora. Soldi,
amicizie, scelte. Molto ha sbagliato e molto ha sprecato. Come molto
ha pagato. Arrogante, sincero, eccessivo. In prigione un giorno lo
chiamò il filosofo Bertrand Russell per offrirgli la sua
solidarietà: «Cercheranno di spezzarla perché lei è il simbolo di
una forza che non riescono a distruggere. ..». Alì gli rispose:
«Grazie, lei è meno idiota di quello che sembra».
Tornò sul ring dopo 43
mesi di pugni incatenati: a danzare, a rivincere, a fare una cosa mai
riuscita prima: conquistare due volte il titolo mondiale dei massimi.
«Vola come una farfalla, pungi come un’ape», gli ricordava sempre
Drew Bundini Brown, il suo secondo all’angolo. E lui volava e
pungeva facce piene di pugni. Così diverse dalla sua di allora,
intensa e senza ferite. Ma così uguale a quella di oggi, tumefatta
dalla malattìa e da troppe cicatrici nascoste. «Avrei preferito non
vederlo conciato così. Per rispetto, per quello che è stato...»,
dirà di lui Nino Benvenuti pensando alla notte infinita di Atlanta.
Non è così. Perché la
pietà ha sempre un senso. E l’emozione che trasmette un simbolo
non merita mai di essere oscurata. L’emozione di un uomo che la
medaglia conquistata nel 1960 la buttò in un fiume. Per il colore
della sua pelle negli Stati Uniti gli avevano rifiutato l'ingresso in
un bar. «La medaglia d'oro? L'ho buttato via. Perché se non mi
serve nemmeno per bere una birra, vuol dire che conta davvero
poco...».
Alì dopo nove figli e
quattro mogli, ha avuto sino a poco tempo fa ancora una vita
pienissima. Finché è riuscito a farlo da solo, si è caricato in
spalla poveri, drogati e carcerati, ha devoluto ad associazioni
umanitarie l’equivalente di almeno 55 milioni di euro, non ha mai
smesso di schierarsi, di farsi tirare la vestaglia da chiunque avesse
un diritto da rivendicare, un sopruso da denunciare. E anche adesso
che parlava solo con gli occhi, riceveva ancora centinaia di lettere
al giorno. Perché amava la vita che doveva ancora prendere a pugni,
e soffriva per quella a cui doveva sopravvivere, garantisce chi gli
stava vicino.
Alla fine, nel buio
infuocato di Atlanta 1996, la regia dei Giochi inventò uno stacco
televisivo buono per impedire di vedere che le Olimpiadi si erano
accese anche senza il tocco di Ali. Ma nessuno l’ha saputo. E
nemmeno avrebbe voluto. Questione d’amore, anche questa. In una
notte nera di fiamme che stentavano a bruciare, il mondo ha guardato
stordito solo quel suo braccio che tremava. Riconoscendo un eroe,
giusto o sbagliato che fosse, in un tempo senza fuochi. Dove gli
eroi, quelli giusti come quelli sbagliati, da un pezzo hanno finito
di esistere e di danzare la vita e lo sport.
“Avvenire”, domenica
5 giugno 2016
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