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La disputa tra Apple e il
dipartimento di giustizia statunitense per l’iPhone di Syed Rizwan
Farook non è stato il primo e non sarà certo l’ultimo incrocio
tra hacker e politica. Il fenomeno dell’hacktivism,
pratica dell’azione diretta di protesta e sabotaggio dal basso in
formato digitale, è balzato agli onori della cronaca nel 2010,
quando il gruppo internazionale Anonymous mise in atto l’operazione
“Resa dei conti”: furono resi inaccessibili i siti di grandi
società come Visa e Mastercard e di decine di istituzioni, con
l’obiettivo di vendicare chi aveva ostacolato Julian Assange e il
suo sito Wikileaks che aveva reso pubblici dei documenti
confidenziali americani. Il loro ultimo nemico è invece l’Isis, di
cui provano a oscurare i canali social e altri strumenti di
propaganda.
Negli anni questo
collettivo ha compiuto altre centinaia di operazioni. La più
importante è seguita alla chiusura del sito di condivisione di file
MegaUpload. Centinaia di indirizzi diventarono indisponibili: dalla
Casa Bianca alla Sony, dalla Nasa all’Fbi, dalla Universal a
Hollywood. La cellula italiana, come l’hanno definita i giudici, si
è rivelata molto attiva anche contro politici e partiti. Le forze
dell’ordine sono intervenute in diverse occasioni, con decine di
arresti a partire dal 2013, ma senza riuscire a indebolire
l’organizzazione. Le offensive contro i politici sono trasversali:
nel mirino sono finiti Matteo Renzi, la Lega Nord, la Casaleggio
Associati, tutto il consiglio regionale del Veneto, il ministero
dell’Interno, quello della Difesa e quello dell’Ambiente, di cui
sono stati resi pubblici gigabyte di dati. Ma non solo: il tribunale
di Roma, tutti i sindacati di polizia, Enel ed Eni, Agcom, Equitalia
e per ultimo Expo, bloccando anche per alcune ore le prevendite dei
biglietti di ingresso all’esposizione universale del 2015.
Allo stesso tempo
esistono altrettanti, se non di più, attacchi informatici che
portano la firma di uno Stato: solo l’amministrazione statunitense
ha subìto lo scorso anno 61 mila offensive digitali e il direttore
della National intelligence, James Klapeer, le ha definite «la più
grande minaccia alla sicurezza del Paese». Tra i responsabili gruppi
come la Sirian electronic army e la Iranian cyber army, che
sostengono di agire nell’interesse e non per conto della propria
nazione, ma anche professionisti ingaggiati da potenze straniere. Il
27 marzo 2016 il dipartimento di giustizia ha denunciato sette hacker
iraniani, dipendenti di due compagnie che lavorano per i pasdaran di
Khamenei. Allo stesso modo, dal 2010, i segreti nucleari iraniani
sono stati al centro di numerosi attacchi, di cui sono stati accusati
gli stessi Stati Uniti e Israele. Nel 2014 sono addirittura entrati
nella lista dei cyber-criminali più ricercati della Fbi cinque
ufficiali dell’esercito cinese, destinatari di 31 capi di
imputazione, compreso lo spionaggio industriale.
D’altronde anche il
sistema di sorveglianza di massa dell’Nsa svelato da Edward Snowden
faceva uso delle più avanzate tecniche di pirateria informatica, e
tra le vittime sono rientrati anche 35 leader da tutto il mondo, tra
cui la cancelliera Angela Merkel. Tra le società private più
quotate nel settore della vendita di sistemi per l’intrusione
informatica c’è anche l’italiana Hacking team, con sede a
Milano. Lo scorso luglio l’attacco di un hacktivista solitario di
lingua spagnola, noto come Pineas Fisher, ha esposto oltre 400
gigabyte di dati riservati. Tra i documenti rilasciati da Pineas
spiccano le fatture rilasciate a governi come Bahrein, Kazakistan,
Libano e Sudan, già oggetto anche di un’indagine delle Nazioni
Unite. «Questo è tutto quello che serve per abbattere una compagnia
e fermare il loro abuso dei diritti umani», spiega il pirata in un
messaggio diffuso a metà aprile. «Questa è la bellezza e
l’asimmetria dell’hacking: con 100 ore di lavoro, una singola
persona può distruggere l’impegno di anni di una compagnia
multimilionaria. L’hacking permette anche al pesce piccolo di
combattere e vincere».
Pagina 99, 7 maggio 2016
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