Vo' (Pd), Villa Contarini Vemier |
«Se l’Italia è caduta
nella vergogna e nel disonore, se l’Italia conosce oggi il periodo
più oscuro della sua storia, ciò lo deve all’ebraismo, a
quell’ebraismo che bisogna sterminare». «Dobbiamo pertanto
liberarci una volta per sempre, senza sentimentalismi e senza
discriminazioni, di questa genia malvagia di parassiti, che di
italiano non ha che la cittadinanza usurpata e del tradimento il
marchio inconfondibile».
Così, l’8 ottobre
1943, un giornale collaborazionista di Padova - «Il Veneto» - aveva
suonato a raccolta contro la «razza ebraica maledetta da Dio».
L’armistizio dell’8 settembre era stato annunciato da un mese
esatto, Mussolini era stato liberato dalla prigione del Gran Sasso,
la repubblica di Salò era sorta sulle ceneri dell’odioso
tradimento del 25 luglio: che cosa bisognava attendere ancora perché
i maggiori responsabili della rovina, i perfidi giudei, venissero
colpiti da una «vendetta terribile e annientatrice»? Eppure le
stesse autorità germaniche si erano limitate, fino a quel momento, a
recepire i dati anagrafici e gli indirizzi dei 544 ebrei di Padova
schedati già nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali.
Per gli impazienti
collaborazionisti patavini della Soluzione finale, la prima
buona notizia arrivò il 19 ottobre sotto forma di un treno piombato:
erano i carri bestiame che trasportavano gli oltre mille ebrei di
Roma razziati nel ghetto tre giorni prima, il 16 ottobre 1943, e che
transitarono per la stazione ferroviaria di Padova verso una
direzione ufficialmente sconosciuta, ma certamente ingrata ai
passeggeri. La seconda buona notizia arrivò il 14 novembre, quando
il congresso di Verona del Partito fascista repubblicano definì gli
appartenenti alla «razza ebraica», fossero pure cittadini italiani,
«stranieri» di «nazionalità nemica». A quel punto, anche
giornali moderati come il veneziano «Gazzettino» poterono
scatenarsi contro gli infami «discendenti di Giuda».
Il 1° dicembre, le
prefetture della repubblica di Salò ricevettero dal ministero degli
Interni l’ordine di deportare «tutti gli ebrei» in «appositi
campi di concentramento». E per allestire tali campi disposero di
adattare una varietà di luoghi più o meno conformi alla bisogna:
caserme, scuole, colonie estive, ville di campagna. Su una ventina in
totale, il campo maggiore fu quello di Fossoli (presso Carpi, in
provincia di Modena) che già era servito al concentramento di
prigionieri di guerra. Quanto agli ebrei di Padova e del Padovano,
vennero concentrati in un’antica villa dal nome aristocraticamente
risonante -villa Contarmi Venier - situata nel cuore di Vo’
Vecchio, un borgo al margine occidentale dei Colli Euganei.
Trascurato per decenni
dalla storiografia universitaria e quasi obliterato dalla memoria
collettiva, il campo di concentramento di Vo’ è stato “riscoperto”
una ventina d’anni fa grazie alle ricerche di un studioso locale,
Francesco Selmin: che ne restituisce ora la vicenda in un piccolo
libro intitolato Nessun «giusto» per Eva. Una ricostruzione
tanto asciutta quanto sensibile del destino occorso a qualche decina
fra gli ebrei padovani investiti dalla Soluzione finale; una specie
di breve microstoria, ma rivelatrice di una storia grande e
terribile.
Il titolo del libro viene
all’autore da una giovane ebrea italiana di origini ungheresi, Eva
Ducci, che dopo l’8 settembre cercò scampo con la famiglia a
Firenze e che, in realtà, nel campo di Vo’ non fu internata
affatto: ma Eva aveva condiviso con altri ebrei del Padovano gli
studi classici al liceo-ginnasio Tito Livio, prima di esserne esclusa
dalle leggi razziali. Soprattutto, Eva Ducci condivise con la
sessantina di ebrei internati a Vo’ dal dicembre 1943 al luglio
1944 (padovani in maggioranza, ma non solo: anche torinesi,
triestini, sloveni) il destino della deportazione in Polonia. Fra gli
ospiti coatti di villa Contarini Venier, soltanto tre - tre donne -
ritorneranno salvi da Auschwitz.
Il campo di
concentramento di Vo’ era così piccolo che Selmin ha potuto
scriverne qualcosa come una storia totale: identificando per nome e
per cognome non soltanto tutti i detenuti, ma anche la maggior parte
dei (pochi) carcerieri. Selmin ha potuto inoltre ritrovare le tracce
di alcune fra le suore elisabettine che prima dell’8 settembre
avevano preso in affitto la villa, e che servivano i pasti ai futuri
deportati. Ha ritrovato il menù (per così dire) di quei magrissimi
pasti. Ha ritrovato perfino il fabbro al quale le autorità di Salò
chiesero di costruire le griglie che dovevano impedire ai reclusi di
scambiare lettere o messaggi con l’esterno. E Selmin ha ritrovato
la bella figura del parroco di Vo’ Vecchio, don Giuseppe Rasia, che
generosamente volle assistere gli ebrei internati nella villa, e i
cui appunti costituiscono la fonte principale per questa storia della
Shoah in miniatura.
Ci sono scene del libro
che si fissano nella memoria. Come quella di Anna Zevi, un’ebrea di
Este poco più che trentenne e gravemente malata, che il 30 gennaio
1944 fu autorizzata a uscire da villa Contarini Venier per
raggiungere la chiesa parrocchiale e ricevere il battesimo cristiano.
Il suo fu un sacramento diverso dal battesimo che tanti ebrei
italiani si erano fatti amministrare, dopo le leggi razziali del
1938, per ragioni più o meno opportunistiche, cioè nella speranza
di scampare in tal modo alla persecuzione: nel gennaio del ’44 Anna
Zevi aveva ormai il destino segnato, l’acqua santa da lei ricevuta
sul capo non sarebbe comunque valsa a tenerla lontano dal treno per
Auschwitz.
Altra scena
indimenticabile, quella di una bambina di sei anni - si chiamava Sara
Gesses, ed era figlia di un ebreo di origini russe con negozio di
valigie a Padova - che al momento della chiusura del campo di Vo’
cercò in tutti i modi di scampare a una sorte della quale, peraltro,
doveva sfuggirle la portata. Dapprima, il 17 luglio 1944, Sara riuscì
(forse con l’aiuto delle guardie italiane del campo) a non salire
sui camion che trasferirono a Padova i reclusi di Vo’. E anche
quando, l’indomani, una terrorizzata madre superiora delle suore
elisabettine consegnò la bambina alle autorità tedesche del
capoluogo, ancora Sara cercò di sfuggire al pullman destinato alla
triestina Risiera di San Sabba, tappa intermedia del viaggio verso la
Polonia.
Ma Sara, sei anni, non
riuscì nell’intento. Finì per salirci anche lei sul convoglio
33T, il suo treno per Auschwitz. Con tutti gli altri internati di
Vo’, sbarcò sulla rampa di Birkenau nella notte fra il 3 e il 4
agosto 1944. E come quasi tutti gli altri, fu immediatamente
«selezionata» e mandata in gas.
«Il Sole 24 Ore», 15
gennaio 2012
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